Jeff Bark, Overtime, 2018

Metodo Bark

Michele Masneri

A Palazzo delle Esposizioni a Roma la prima personale del fotografo di moda newyorchese, tra Visconti, nature morte e tableau vivant

Nella micidiale caldazza di via Nazionale arriva a Roma un po’ di glamour – e lì, subito pullmini oscurati che schizzano da una parte all’altra del centro, mettendo in moto economie, sobbalzando sulle buche. C’è la moda a Roma, e tra le ziggurat di monnezza e il sampietrino bollente le tribù sartoriali qui fanno sempre un po’ sorridere, gli armamentari e le mise fatte per stupire ad altre latitudini qua non procurano che degli “a fanaticooo”, da una popolazione presa più a sopravvivere col bus che va a fuoco e la metro con l’acido. Però molti fondamentali eventi e collaterali in città. A inaugurare la sua mostra romana e spiegarla a drappelli di fashion editor e blogger e forse solo victims con tracolline e pinocchietti ecco il pregiato fotografo americano Jeff Bark che allestisce a Palazzo delle Esposizioni la sua prima personale italiana, “Paradise Garage”, una serie di oltre 50 immagini dedicate a Roma, ma ideate e scattate all’interno del suo garage nello stato di New York. Enormi fotografie ovviamente molto trasgressive e certamente già iconiche: attori falliti, multipli di disgraziati, bambine iperrealiste su fondalini tipo quelli delle nostre nonne, nature morte con posate di plastica, fiori da Verano: Piranesi meets Lachapelle o Tim Walker, però con colori smorzati tipo filtro Gingham.

 

Il metodo Bark sembra soprattutto saggezza popolare: “Questa bambina era molto depressa, perché sua sorella è famosa, poi l’ho ritratta ed è divenuta molto popolare a scuola, ed è una star su Instagram, e non è forse questo che vogliamo tutti oggi?”, spiega il fotografo ai suoi fashionisti nelle arie condizionate. Nei suoi tableaux è tutto finto, dice lui molto soddisfatto. Grandi lavandini barocchetti a conchiglia son pieni d’una acqua che in realtà è silicone (“da piccolo non avevamo niente, quindi quando vidi questo tipo di lavelli mi sembrava il massimo dello chic”); fondali romani a rotoli acquistati su Amazon, “ah, naturalmente è Visconti, una grande ispirazione e passione”, soprattutto “Conversation piece” che dà nome qui a un’operona (e tutti, ma che film è? Boh). Superato er disagio, si scopre che è “Gruppo di famiglia in un interno”, maddai, lui lo ama molto, “l’ho visto tutto venendo in aereo!”. Modelli anonimi, incerati, trasfigurati, tirati a lucido. “David l’abbiamo scelto su 2500 perché era un uomo assolutamente senza personalità”. “Questa ragazza era molto pelosa, la donna più pelosa che abbia mai visto, però in foto il pelo l’abbiamo tolto quasi tutto, e lei qui non è meravigliosa?”. Tutto è finzione, insomma, sembra voler insegnare il fotografo, anche se non manca il messaggio sociale (e pure er medium): ecco un modello sbevazzone che dorme nel suo garage, il garage d’artista che qui viene ricreato; “era un fattorino bellissimo che veniva a consegnare a casa. L’ho fatto posare, gli ho trovato un agente, ma lui era troppo pigro, s’è giocato la sua possibilità, e ora è un cazzaro da bar”. Per voi giovani. E poi: mentre si guardano le opere, delle telecamere sorvegliano chi guarda, e potranno utilizzare qualunque immagine di noi! (ammazza).

 

Il garage d’artista è poi lì. Eccolo, un fondale con cuori di plastica, mutande rosse, carta igienica rosa. Fiori pure di plastica, tra Porta Portese e veneri degli stracci. “Tutto è finto!”, dice estasiato l’artista, e ci sta pure una poltroncina per farsi un bel selfie tra le rose sintetiche (ma il metodo Bark sembra funzionare soprattutto sull’autore, che, cinquantacinquenne, dimostra non più di quarant’anni).

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