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Avere cent'anni

Michele Masneri

Al Maxxi di Roma apre la grande retrospettiva dedicata a Maria Lai, mentre è prorogata la mostra di fotografie di Paolo Di Paolo

Specchio del paese, il Maxxi diventa luogo dell’avanguardia artistica, che in un paese come l’Italia non può che essere quella della terza età: così è stata prorogata la mostra bellissima su Paolo di Paolo, novantaquattrenne fotoreporter con una storia migliore di quella della babysitter Vivan Maier.

   

Per chi ancora non lo sapesse, fino al 1966 Paolo Di Paolo ha fotografato tutti: il popolo e Re Umberto, l’Autostrada del sole e il treno Settebello, i contadini e i bagnanti; i balli dei principi romani, i funerali di Togliatti, Tennessee Williams a Tor San Lorenzo; Pasolini e la Magnani. Tutto finiva sul New Yorker italiano, il Mondo, di cui era fotografo principe.

   

Poi però si stufa, si delude, il Mondo chiude, accade insomma qualcosa, lui cambia mestiere, fa l’art director dei calendari dei carabinieri, quegli strani oggetti variopinti che adornano non solo le stazioni e le caserme ma anche taluni uffici che per misteriose logiche li ricevono. Finché la figlia Silvia scopre le foto negli scatoloni in cantina, il mecenatesco Alessandro Michele di Gucci sponsorizza, e ne vien fuori una mostra epocale (e la prova che il successo ha un effetto anche genetico: l’altra sera Di Paolo, a cena, elegantissimo col solito bastone e la polo gialla, pareva ringiovanito di dieci anni, mentre Bruce Weber sta facendo un documentario su di lui).

   

Adesso accanto al fotografo dandy il Maxxi ora celebra pure Maria Lai, fondamentale artista sarda, morta nel 2013 quasi centenaria all’apice della gloria. Per generare una vastissima produzione usò tecniche e strumenti polimorfi, tra tessuti, fili, pani, terre, rocce, telai, riti, miti ancestrali, il tutto a chilometri zero. E poi ready made, con le fiabe scritte, cucite su quaderni che diventano oggetti d’affezione, o lavagne che al posto dell’ardesia hanno velluto nero, su cui sono cucite parole e numeri. E pagine bianche e gialle ricamate, come un Vezzoli della Sip.

   

Viveva alla Balduina Maria Lai, in un auto-esilio molto produttivo come un altro genio italico pochissimo social, Carlo Emilio Gadda, e magari si saranno pure conosciuti, tramite scrittori e intellettuali della solita Roma leggendaria anni Cinquanta (lei fa la sua prima mostra alla galleria Il Cembalo, di Irene Brin e del marito Gaspare del Corso (e siamo di nuovo al Mondo). Nata nel 1919 come Emilio Vedova o Andrea Cascella, Lai ha però rispetto ai colleghi mainstream un percorso più rallentato forse data la sarditudine e l’essere femmina, ma alla fine sul lungo periodo li frega tutti, rispuntando già anzianotta negli anni Ottanta, quando gli altri sono ormai affaticati, e avendo invece lei, si capisce, digerito e rimasticato e processato in una chiave molto soft e magica tutto ciò che nella grande arte è passato per strada: dal nouveau realisme alla Pop art all’Arte povera di Pascali e Kounellis a Burri.

   

Slegata dal piccolo formato degli esordi, si butta, sessantenne, in performance spettacolari, anche: land o relation art col progetto “Legarsi alla montagna”, del 1981, in cui collega le case del suo paese, Ulassai, nell’Ogliastra, a partire da una fiaba locale e da una commessa del comune che voleva un monumento ai caduti: ma lei invece di far festa ai morti decide di épater i viventi, non proprio friendly: i residenti accettano dunque di annodarsi, sì, ma solo coi paesani con cui vanno d’accordo. Ci vuole un anno e mezzo per convincerli tutti, con un compromesso molto politico: il nastro passerà dritto dove ci sono beghe, annodato dove c’è amicizia, addirittura infiocchettato dove c’è l’amore. Grande successo, tutto fotografato da Piero Berengo Gardin. Lei ha soli 62 anni, è una pischella, e da lì in poi sarà tutto in discesa.

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