I funerali dell'ex presidente americano George Bush (Foto LaPresse)

Prima McCain, ora Bush. La nostalgia per i Wasp

Michele Masneri

Quanto ci manca la vituperata aristocrazia che per due secoli ha guidato l’America

Che immagini: i marines dritti con le guance rosse, i feretri imbandierati, i cani inconsolabili (labrador) a vegliare le bare gentilizie. Dopo l’esperienza breve ma intensa dei tamarri al governo, è chiaro che la nostalgia anche dei più efferati establishment cresce, pungolata da funerali americani di Stato così coreografici (non potendo produrre nozze reali, gli Stati Uniti si sono specializzati infatti da tempo in funerali presidenziali da esportazione): prima il senatore McCain quest’estate, poi ora Bush primo, celebrato in morte come padre della patria (mentre ai tempi suoi, dopo Reagan, sembrava un tipo così grigio).

 

“L’ultimo presidente veramente legittimato”, urla ora istericamente sull’Atlantic Peter Beinart: nel senso di non divisivo, e adatto alla carica; prima dei Clinton arrembanti e degli Obama polarizzanti, dei backlash e dei riconteggi dei voti (e, si aggiungerebbe, pure dei social media tossici). Il New York Times, nell’opinione sogghignante di Ross Douthat, sottolinea come la nostalgia per Bush abbia molte fonti: l’ammirazione per la generazione della seconda guerra mondiale e la sua genia di politici-guerrieri; il consueto apprezzamento postumo dei media per i repubblicani moderati, il contrasto del primo Bush col secondo. E, naturalmente, la natura dell’attuale occupante la suprema magistratura.

 

Tutti si struggono insomma, un po’ vituperandola, di questa wasp-nostalgia: nostalgia cioè del bianco anglosassone protestante, il più significativo surrogato d’aristocrazia che l’America abbia prodotto, dai Padri pellegrini fino alle pubblicità di Ralph Lauren. Il Daily Beast fa un albero genealogico dei presidenti di questa razza, da George Washington a George Bush figlio (sarebbero undici).

 

Douthat fa dei distinguo: certo erano antisemiti, e tendevano a escludere dal potere blocchi sociali diversi dal loro: ma non diversamente da quanto si fa oggi nell’America pur pluralista con gli asiatici; e sì, erano buoni soprattutto a riprodursi per poi piazzare le progenie nelle università dell’edera, sempre calzando scarpe da barca.

 

E però che spirito di servizio, e che riuscita sul campo di battaglia: John McCain fu torturato per anni in una prigione vietnamita pur col padre capo di Stato maggiore, arrivando a tentare il suicidio; non pensando mai neanche un momento però di ricorrere al papà. Avevano conoscenza e uso di mondo: il cursus honorum di fraternity e golf club sarà stato cazzone ma poi serviva (ma già Arbasino: alla fine gli unici che sanno davvero l’inglese in Italia sono un gruppo di marchesi coglioni con le nanny giuste). Bush41 (per distinguerlo da Bush43 cioè il figlio, numerazione presidenziale) era stato ambasciatore in Cina, pur potendo scegliere altri sedi più turistiche, per quella concezione da Freccia Alata della diplomazia americana.

 

Era nato ricco ma l’aveva voluto essere ancor di più; era stato membro della fondamentale Skull and Bones, la più araldica delle confraternite, a Yale. E la moglie, Barbara Pierce, che in Italia aveva un soprannome poco chic, discendeva direttamente dal Mayflower, pronipote di un altro presidente addirittura ottocentesco, Franklin Pierce. Anche Bush43, un wasp travestito da texano, e all’epoca stimato poco più che un mentecatto, oggi è in incredibile rivalutazione grazie a un profilo basso, all’acquerello e all’amicizia incongrua con gli Obama (una delle amicizie più incomprensibili della contemporaneità, insieme a quella tra Philip Roth e Mia Farrow). Ma infine: si stava meglio quando si stava peggio, è ovvio. Come ha scritto Helen Andrews sulla Hedgehog Review, “ogni società nella storia ha avuto la sua élite, e cos’è un’aristocrazia se non un’élite che si è molto dedicata a rendersi presentabile?”.

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