Palermo dopo Manifesta

Michele Masneri

Che ne sarà ora della città senza il doping dell’arte contemporanea e delle tribù artistiche che si aggirano per tutte le location pazzesche palermitane?

Cosa resterà, cosa resterà dopo questa Manifesta che ha rilanciato tutte le energie palermitane? La biennale nomade d’arte contemporanea ha chiuso domenica scorsa nel teatro Garibaldi mirabile, dove il conducatore disse la famosa frase, “o Roma o morte”; dopo i parties e i concerti, conclusi sottototono per le esondazioni, ecco una tavola rotonda con la rocciosa direttora della biennale nomade, Hedwig Fijen, e il rocciosissimo sindaco Leoluca Orlando, che danno l’addio alla mostra (andrà a Marsiglia, tra due anni). Nell’ennesima primavera palermitana, ci si inorgoglisce sui numeri: in poco più di quattro mesi, Manifesta ha fatto 483.712 visite in venti sedi diverse e 37.839 biglietti venduti (il doppio dell’ultima edizione, tenuta a Zurigo).

 

Che ne sarà ora della città senza il doping dell’arte contemporanea e delle tribù artistiche che si aggirano per tutte le location pazzesche palermitane? Che ne sarà dei milanesi che han scoperto per l’ennesima volta la città (“che luce, che luce”), cosa faranno? Di sicuro in tanti han scoperto il real estate (mille euro al metro, con affreschi). “Sembra Palm Springs”. “Bisogna lavorare a Milano, e venire a Palermo il weekend”. Roma non ha proprio più nessun senso. “Lo dici a me? Per me da anni è un flyover”.

 

Dibattiti. Confronti con la Berlino anni Novanta. Il sindaco Orlando è tutto eccitato, dice che "Manifesta a Palermo ha rafforzato cose che già c'erano, nascoste”. L’assessore alla cultura, Andrea Cusumano, è orgoglioso della specificità palermitana: “aprire al pubblico posti normalmente non fruibili; creare un polo culturale diffuso”. Dice al Foglio che Manifesta è servita a dare voce a una produzione culturale che la città già stava portando avanti. La città punta anche sull’arte contemporanea per cambiare registro, uscire finalmente dalla narrazione mafia-antimafia. Scutrettola Ippolito Pestellini Laparelli, con la sua aria risorgimentale (curatore di Manifesta, membro del fondamentale studio Oma, dunque incarna questa connessione Milano-Palermo avendo lavorato all’opera che ha definito gli anni Dieci italiani, la fondazione Prada). Prende un té a villa Airoldi Gilles Clément, filosofo giardinistico ispiratore di un guerrilla gardening allo Zen. Si arrovella soddisfatto Massimo Valsecchi, il collezionista milanese che misura ad ampi passi i saloni gattopardeschi a chilometri zero (casa Tomasi è accanto) del suo palazzo acquistato e restaurato coi buoni uffici dell’Ingegner Marco Giammona. Valsecchi porta a casa il colpaccio di questa Manifesta, col suo palazzo Butera epicentro e fulcro degli ultimi quattro mesi. Ma che ne sarà dei paramenti a turgidi aranci, il “Theatre of the Sun” dei losangelini Fallen fruit, che pare opera di un Crivelli molto “pop”, e che l’immaginifico collettivo ha appeso al piano nobile? Chissà cosa penserebbe il povero Tomasi di Lampedusa di via Butera, oscuro compound della Kalsa in cui passò gli anni tristi, con la moglie psicanalista cattivissima: ci si andava avventurosamente in pochi fan gattopardeschi, a fare i pellegrinaggi e trovare Gioacchino. Oggi è tutta tirata a lucido, con baretti a chilometri zero.

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