Silicon Valley dall'alto (foto di Patrick Nouhailler via Flickr)

Com'era verde la mia valley

Michele Masneri

Nell’ultimo anno, dalla valle ci son state più partenze che arrivi; il 46 per cento dei residenti sostiene di aver intenzione di andarsene nei prossimi anni

Il tormentone pro e soprattutto contro la Silicon Valley è ormai un classico letterario: lontani i tempi delle agiografie, di quando si sarebbero volentieri avuti Mark Zuckerberg presidenti globali, prima dell’inquinamento social-mediatico delle nostre vite e politiche e dei Cambridge Analytica: ora è tutta una reprimenda.

 

Una delle ultime copertine dell’Economist sostiene che ecco, tutti sono in fuga da San Francisco e dintorni, che la valle ha raggiunto il suo picco e punto di non ritorno, e che ci sono tanti distretti in giro per il mondo dove le imprese si trovano molto meglio.

 

Ogni volta viene posto un confronto diverso: sempre fantasioso. Finora era Austin in Texas, già sede del prestigioso festival tecnologico SXSW; però ad andarci, oltre al pregio del cimitero pronto per ospitare George W. Bush, che qui dipinge acquerelli, e ottimi barbecue, e un tessuto urbano fatto fondamentalmente di due stradoni che si incrociano (con vasto traffico automobilistico), non si era trovato molto altro.

 

Adesso, scrive l’Economist, l’alternativa potrebbe essere Miami, che registra la maggiore crescita di startup sul territorio statunitense, oltre a un clima decisamente migliore di quello di San Francisco.

 

Nell’ultimo anno, dalla valle ci son state più partenze che arrivi; il 46 per cento dei residenti sostiene di aver intenzione di andarsene nei prossimi anni (anche se pare soprattutto un sondaggio applicabile all’intera popolazione americana, di norma non stanziale e non contraria a priori al cambiamento di cap o zip).

 

Certo incide il solito micidiale costo del vivere nordcaliforniano: in città, quattromila dollari al mese per un one-bedroom, diecimila per un due camere, con lamenti che qui farebbero ridere (l’ingegnere di Twitter che scrisse una accorata lettera al locale San Francisco Chronicle, lamentandosi di aver studiato tanto per poi guadagnare solo trecentomila l’anno, dunque perire di fame).

 

In realtà l’ecosistema siliconvallico pare difficilmente replicabile altrove (quel mistone tra cultura fricchettona-libertaria, continuo incesto tra accademia, aziende piccole e grandi, venture capital, spirito di frontiera). Difficile trovare un altro posto con stratificati e dialoganti: la corsa all’oro, la summer of love, la cultura gay e quella del microchip. Però il mistone si paga. E certo il costo estremo dell’alloggio crea anche difficoltà. Non solo quelle note della barbonaggine vasta e dolorosa, ma anche la frustrazione continua delle esigenze medie di socialità. Difficile infatti trovare interlocutori che non siano miliardari brufolosi o homeless aggressivi (spesso le due categorie allignano nello stesso contesto, come nei bar che offrono avocado toast a quattro dollari nell’ex quartiere sgarrupato della Mission, con startupper che ticchettano sui loro computer e senzatetto che raspano sulle vetrine come in un Dickens struggente).

 

Tra i due estremi, entrambi poco frequentabili, pochissimo in mezzo: professori architetti artisti son costretti a emigrare: anche solo a Los Angeles, dove il clima è più mite, e anche il metroquadro.

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