La perfida Albione

Michele Masneri

Nella Biennale dell’anno I, ai Giardini domina il padiglione britannico, in ogni senso

Nella Biennale dell’anno I, ai Giardini domina il padiglione britannico, in ogni senso. È alla fine del secondo asse visivo – l’altro è quello che ha il padiglione ex Italia di fronte ai cancelli -, memore del complesso di inferiorità dell’Italietta umbertina alle origini della Biennale verso l’Impero di sua Maestà britannica. Quest’anno poi i due curatori, Adam Caruso e Peter St John, architetti cinquantenni londinesi col sorriso spento e il golfino sulle spalle tipo “Quel che resta del giorno”, sussiegosi e soft spoken, hanno deciso di fare tabula rasa: il padiglione è completamente vuoto e nemmeno ripittato per l’occasione, restano le sbeccature della Biennale d’arte scorsa. Tutto si svolge dunque on top, sul tetto, ove si accede tramite apposita scala reale in stile Brico/Obi. per scoprire che c’è una piazza quadrata in legno a scacconi rossi, grigi e giallini, e tutt’intorno le cime degli alberi e al limite giusto l’isola di San Servolo e il Lido in lontananza.

 

Un modo per astrarsi e isolarsi – Island non a caso è il titolo del padiglione – benché la colta citazione alla fine della brochure illustrativa riporti la celebre frase di John Donne: no man’s island, nessun uomo è un’isola. “Credo che la tristezza faccia parte della vita umana e per questo l’architettura non possa ignorarla” sospira St. John. “Noi inglesi poi veniamo dalla Brexit e non possiamo certo celare un certo senso di vuoto”, dice mettendosi del collirio negli occhi già lacrimosi, e guardando gli uccelli della laguna. “Oltre al fatto, ovviamente, che il vuoto è molto economico da realizzare”, puntualizza molto. Ma perché tutto questo legno? Per ulteriori risparmi? “Quando ero uno studente di architettura, venni a visitare la prima Biennale del 1980 diretta da Paolo Portoghesi, La presenza del passato. Come tutti rimasi profondamente colpito soprattutto dal Teatro del Mondo di Aldo Rossi, un edificio effimero per rappresentazioni teatrali su modello del teatro shakespeariano seicentesco, però galleggiante e con tanti riferimenti veneziani dal legno delle galere alle strutture metalliche dell’Arsenale”. “Abbiamo voluto dunque usare gli stessi materiali del teatro rossiano per realizzare però qualcosa di diverso: una piazza dove riposarsi, bere un tè o una tisana – alla verbena e limone per la precisione -, una piccola isola in più nell’arcipelago lagunare e un omaggio alle piazze italiane”, una piccola isola in più nell’arcipelago lagunare e un omaggio alle piazze italiane”, dice sorseggiando questa tisana mentre il clima piovigginoso si fa perfettamente britannico, e stiamo lì sul ponte superiore evocando un teatrino che affonda: e come metafora geopolitica non è niente male.

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