Tutti i Getty del mondo

Michele Masneri

Dinastie. Dopo il film censurato con la cancellazione di Kevin Spacey, arriva la serie. Protagonista sempre lui, l’avaro John Paul. Famoso per le sue collezioni d’arte e i telefoni a gettone. Cosa resta della famiglia

Si apre con un pool party del più puro Slim Aarons questa nuova serie dedicata alla celebre dinastia dei Getty, già prosapia più ricca del globo grazie agli idrocarburi. Dopo il film “Tutti i soldi del mondo”, famoso soprattutto per il cambio in corso d’opera del protagonista (Christopher Plummer al posto di Kevin Spacey travolto dalle presunte sporcacciate), adesso arriva questo “Trust”, regia di Danny Boyle, con un irresistibile Donald Sutherland che fa il nonno cattivo e incomprensibile in un farfugliamento aristo-petrolifero irresistibile (dal 28 marzo il mercoledì su Sky Atlantic). E’ logico che tutti vogliano fare questo personaggio, cattivo perfetto in quanto ricco e spietato, di leggendaria avarizia (qui sembra molto il nonno Alec Guinness nel Piccolo Lord, se solo il Piccolo lord fosse stato tossico).

 

Non solo Getty metteva telefoni a gettone in tutte le sue miliardarie residenze, ma lottò strenuamente per evitare di pagare il riscatto del nipote, John Paul Getty III, rapito a Roma nel 1973.

 

E si tratta certamente di un filone, o andazzo o trend, stabilito certamente da algoritmi: i ricconi iconici piacciono tantissimo; c’era stato Agnelli, protagonista di un documentario patinato per Hbo, e adesso ecco i Getty, giustamente. Si risentiranno altre prosapie americane di uguali pil e 740 ma non ugualmente celebrate? C’è qualcosa che bolle già in pentola? I Mellon? I Carnegie? (E Arbasino, in vacanza con Capote su una barca appunto Agnelli, narrava di una famosa divorziata che rispondendo alla domanda “da dove vengono questi meloni così buoni?”, rispondeva informatissima: i Mellons vengono da Pittsburgh). Mentre i romani sopravvissuti, che frequentavano l’erede fricchettone, confermano ancor oggi che Jp Getty III frequentava “la peggio gente”, lo sapevano tutti (ma quando una serie o anche solo un film sugli aristocratici o anche solo ricchi decimati dall’eroina a Roma negli anni Settanta?)

 

E chissà se ci sarà la storia dell’orecchio, così legata al malcostume italico: si disse che una prima richiesta di riscatto venne infatti ignorata non per la solita cattiveria del vecchio ma perché un lungo sciopero estivo delle Poste non ancora privatizzate ritardò di un mese l’arrivo della missiva, dunque provocò l’ira dei rapitori e costò la cartilagine al nipote.

  

La famiglia oggi è ancora abbientissima: sopravvive un Gordon Getty, del ramo di San Francisco, ottantaquattrenne, che vendette il business petrolifero di famiglia negli anni Ottanta per dieci miliardi di dollari. Lui è un famoso compositore d’opera. Sponsor del partito Democratico, è l’intellettuale di casa, laureato in letteratura inglese, e prima dell’audace scelta universitaria pare abbia chiesto consiglio al famoso padre terribile, che disse “il petrolio sarebbe meglio, ma l’arte va bene lo stesso”.

 

Il Getty capofamiglia spietato era infatti un famelico acquirente di cimeli antichi: lasciò la celebre villa Getty di Malibu, copia perfetta della villa dei Papiri di Ercolano, e un Getty Center candido disegnato da Richard Meier, con treno monorotaia per i turisti. Non lesinando sui lasciti, risparmiava piuttosto sugli affetti. Cinque matrimoni, e quando il nipote venne rapito a piazza Farnese, partirono trattative lunghissime. Si disse che dopo molte insistenze pagò di tasca sua solo 2,2 milioni di dollari dei 14 richiesti dai rapitori, poiché era il massimo deducibile dalle tasse. Il resto lo imprestò al figlio al 4 per cento. Il Getty rapito non si riebbe poi mai, con droghe, paralisi, morte precoce. Mentre il riscatto venne leggendariamente impiegato, con moltiplicatore keynesiano, per realizzare un mitologico villaggio Getty calabrese generando benessere diffuso (prima dei redditi di cittadinanza).

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