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Macché Internet, in Italia trionfa sempre la tv: 40 anni di storia del paese raccontati dall'Auditel

Michele Masneri

Nel 1984 il duopolio Rai-Fininvest porta all’Auditel come sistema di rilevazione in seguito all'accordo tra Biagio Agnes e Silvio Berlusconi. L’Auditel nasce anche e soprattutto perché serve uno strumento per capire cosa guardano davvero gli italiani. Un libro 

Nel 2024  fatale alla nazione audiovisiva non c’è  solo l’anniversario per i 70 anni della Rai (1954) ma anche i 100 della radio (1924);  un terzo forse meno conosciuto riguarda i 40 dell’Auditel. Il 3 luglio del 1984 nasce infatti lo strumento che diventa croce e delizia dei televisionari, che la mattina esultano o si deprimono guardando le “curve” di ascolto.

 

I suoi primi quarant’anni (dell’Auditel) sono raccontati in un libro appena uscito presso Il Mulino, “L’Italia secondo Auditel”, a cura di Massimo Scaglioni che è anche direttore del CeRTA, (Centro di Ricerca sulla Televisione e gli Audiovisivi dell'Università Cattolica di Milano). Dal libro altamente istruttivo viene fuori un Paese ancora saldamente innamorato del televisore: nel prime time, quella leggendaria fascia che va dalle 20, 30 alle 22,30, la media storica di questi 40 anni è di 23,8 milioni di “teste” ogni sera.  Ogni sera cioè metà del paese è sintonizzato, alla faccia della crisi della tv generalista.  Non c’è, scrive Scaglioni, un medium così egemonico (parola non casuale, perché mentre destra e sinistra si affannano a definire cosa sia mai questa beata egemonia, l’unico comun denominatore culturale è  che siamo e rimaniamo un popolo di televisionari).  

 

E non c’è Internet che tenga: tutta la popolazione italiana che ha più di 18 anni dedica molto più tempo alla fruizione televisiva che  alla navigazione sul web (4 ore e 32 contro 2 ore e 2 minuti), si legge nel volume. Questi 40 anni sono stati  “l’età dell’oro della tv generalista”, e attraversano le epoche e i gusti. Si passa dai rarissimi film che passano in televisione negli anni Ottanta,  all’invasione nei Novanta, con pellicole che fanno ascolti pazzeschi come “Balla coi lupi” (1990) o “Il nome della rosa” (1989) che superano i 14 milioni di telespettatori.  Negli anni duemila c’è la grande sostituzione con la fiction, capitanata dal “Commissario Montalbano” che fa 11 milioni a sera. Resistenti a epoche e cambiamenti ci sono due  costanti, il calcio e il festival di Sanremo.

 

Insomma, molto è cambiato dal quel fatale 1984 quando la nascita del duopolio (Fininvest comincia a combattere ad armi pari con la Rai acquistando anche Rete 4) porta all’Auditel come sistema di rilevazione in seguito a un accordo tra Biagio Agnes e Silvio Berlusconi. L’Auditel nasce anche e soprattutto perché serve uno strumento per capire cosa guardano davvero gli italiani, visto che il nascente mercato della pubblicità pretende dati precisi per gli investitori. E prima? Prima nel monopolio del bianco e nero Rai c’era un sistema molto democristiano e spannometrico, scrive Aldo Grasso nel volume, quello del  “gradimento”, metodo inventato da viale Mazzini  che fungeva da grande calmiere (quando le trasmissioni andavano male, non si diceva niente. Quando andavano bene, era appunto alto o altissimo gradimento: da cui poi la trasmissione di Arbore).

 

Quando arrivò l’Auditel fu quindi uno choc con le consuete accuse di neoliberismo e turbocapitalismo: ma come, un sistema che misura scientificamente gli ascolti? E l’arte dove la mettiamo?  E però proprio Arbore, ricorda Grasso, si schierò col fronte degli apocalittici: sarebbe stata la fine della tv di qualità (e aveva forse ragione). Di contro, Gianni Boncompagni vedeva un grande futuro per la tv commerciale (e aveva ragione pure lui). Lo strumento dell’Auditel in sé diventa esotico oggetto di attenzione, i giornali cercano disperatamente di trovare le famigerate 16.100 famiglie che sono collegate, che decidono del fondamentale dato capace di fare la felicità o la disperazione del mezzobusto e del direttore di rete.

 

Ma l'Auditel non è una bizzarria, fa invece parte della vasta famiglia dei “people meter” adottati in 80 paesi nel mondo; in America c’è il sistema Nielsen, inventato dall’ingegner A.C. Nielsen, che prima l’aveva studiato per la radio, nel 1923. L’Italia è una delle ultime in Europa a dotarsi di un misuratore, mentre la Bbc è sempre stata scettica sul mero consumo quantitativo e ha un sistema più complesso, perché la quantità di persone che stanno davanti al video non significa automaticamente che il programma piaccia (mai sentito parlare di hate-watching?). I metodi utilizzati nel mondo per rilevare chi guarda cosa sono i più disparati, si va dai sondaggi tv ai diari degli spettatori che a fine giornata annotano in un quadernetto cosa hanno visto (in Pakistan si fa ancora così). Generalmente l’età minima per essere considerati nel campione è di 4 anni, ma in Australia contano anche i neonati, da 0 anni (i più strenui Pro Vita potrebbero considerare anche le preferenze tv dei feti). Oggi poi ci sono vari sistemi man mano che il mercato si è aperto anche ad altri strumenti che non siano la tv. Il più evoluto è l’audio matching cioè un microfono nelle case  registra il sonoro e lo confronta con quello dei programmi (che siano su tv, cellulari o computer). Ma se li ascoltano in cuffia? Ogni contenuto digitale visualizzato ha una specie di “tag”, che rimanda a un cervellone che registra tutto.  

 

In Italia, il campione Auditel è il più alto a livello internazionale in proporzione alla popolazione, siamo insomma anche i  più auscultati del mondo. E oggi vige il sistema “censuario” che riesce a registrare tutti gli ascolti di tutti i “device” che guardiamo nelle nostre variegate famiglie (mettiamo che il nonno guardi Don Matteo alla tele, la madre Belve sul computer, i figli qualcosa su Discovery  sul telefonino ecc.) e riesce a intercettare tutta quella che si chiama la “total audience”. E chi si illude che  i “telemorenti” siano in lento e progressivo declino dovrà ricredersi. Sì, Giuseppe De Rita sempre nel libro certifica come anche oggi, nell’epoca della total audience, in ogni famiglia la tv non è più il solo focolare domestico, ci sono infatti in media 5 schermi (da quello grande della tv a quello piccolo del telefono, mentre la famiglia è di media di 2,5 persone), ma comunque la tv è  presente nel 97 per cento delle case. 


E il declino della tv lineare, quella insomma che si guarda col telecomando e in diretta, viene compensato dalle visualizzazioni sul telefonino, che vengono calcolate in una media del 3,5 per cento (ma in alcuni casi superano il 20) del totale. Questo porta anche a svolte epocali (per esempio la Rai che ormai lancia le serie di massimo prestigio prima su Rai Play che “in diretta”, come è successo con “Mare fuori”).  Così quanto viene rosicchiato dai “device” esce dalla porta ma rientra dalla finestra (e l’Italia è “l’unico paese al mondo in cui i broadcaster non vedono calare il consumo dei loro contenuti”).  Certo sarebbe facile mettere in relazione il primato televisivo italiano con altri dati usciti poco fa sul livello di alfabetizzazione, come quelli dell’Ocse per cui un terzo degli adulti italici è in una condizione di analfabetismo funzionale e quasi la metà ha grosse difficoltà nel “problem solving”. Forse lo schermo è ancora grande, sono gli italiani che sono sempre più piccoli.
 

  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).