Foto di Alessandro Di Meo per Ansa

il lutto

Maurizio Costanzo era il prototipo del generalista

Giuliano Ferrara

È stato un grande uomo di potere, un cacciatore di pubblico che coltivò con accanimento, dedicandogli vita passione perdite profitti e il cinismo ironico di una medietà che diventerà leggenda

Pochi in tv accettano di parlare a pochi. Pochi considerano occasionali e benvenute, da festeggiare ma non indispensabili, le grandi fette di share dell’Auditel. Pochi credono o hanno creduto che la tv sia la continuazione di politica e cultura con altri mezzi, e che senza rispetto per le idee e per la loro elaborazione più o meno compiuta, politica e cultura scompaiono dalla conversazione su schermo, e con esse l’etica del mestiere, per lasciare spazio solo agli “altri mezzi”. Maurizio Costanzo era il prototipo del generalista, era un accanito cacciatore di pubblico, a ogni costo, e lo aveva trovato, lo ha coltivato con accanimento, dedicandogli vita passione perdite profitti e il cinismo ironico di una medietà che diventerà leggendaria e coinvolgerà prima o poi praticamente tutti, con rarissime eccezioni. La tv del dolore, dell’antimafia, delle pailettes e degli urlatori rissosi era il sostrato inamovibile della sua ambizione televisiva, la cattura chiesastica, ripetitiva come la messa frequente, senza scampo, una sorta di 41-bis o di oppio del popolo, dello spettatore medio, al quale andava rivolto un discorso medio per fare una buona media d’ascolto

 

Nella storia personale complicata e interessante di questo colosso dell’ovvio, impiccato per un momento al banale errore della P2 ma destinato a un rapido rientro tra le luci del palcoscenico, e a una riabilitazione e celebrazione che si annuncia corale e generalista come la sua arte, la sua tecnica, la sua maliziosa capacità di capire gli italiani, spicca un conflitto apparente tra l’intellettuale flaianeo, il romano di estremo talento che ha piluccato tra il meglio del cinema sceneggiato, il teatrante d’istinto che si guarda bene dall’avanspettacolo, e il re del tinello che considera caciocavalli appesi gli schemi mentali fissi, solidi, logici, non senza un implicito tributo alla duttilità intellettuale di un grande italiano anche nazionalpopolare come Croce, preferendo loro il chiacchiericcio rivelatore, il gioco delle maschere, l’arbitrato di ogni sera all’insegna del plebiscito dell’ascolto medio e dei suoi picchi. Non era volgare né ignorante, non avrebbe mai voluto qualificarsi per eleganza e cultura, mica scemo. 

 

Fu un grande uomo di potere nella comunicazione e i suoi fallimenti come il quotidiano giallo rizzoliano, come le tante cadute di gusto tipiche degli uomini che non si rassegnano alla egemonia un po’ vieta di questo talento bellurioso di principi e mezze calzette appaiati, nulla tolgono alla formidabile costruzione di fatica, di lavoro incessante, di ossessione e gloria serale del suo percorso. Il suo era un potere sedentario, ironia e curiosità erano da poltrona o da divano, a cortissimo e sapienziale raggio, precisamente quelle dei suoi fanatici spettatori seriali, meno scettici di lui ma educati da lui a un punto di scetticismo che è la sua vera lezione finale. Il suo potere era l’ancoraggio tra il quartiere di Prati e il Teatro Parioli, con rapidi e rari spostamenti a Ansedonia, e la misura della sua influenza era il misto di sterminata quantità e infinita durata che nutriva la cifra immobilista del migliore e del peggiore talk-show.

 

A una cena con il compianto Cossiga, dal grande Jannuzzi, in via Petrella dietro piazza Ungheria, una sera si udì un bum tremendo, sinistro, che poi si scoprì come l’attentato mafioso di via Ruggero Fauro ai danni della sua Mercedes scampata all’eccidio per un soffio. Quel bum non ne fece un eroe, per sua volontà coriacea, per sua malizia, per una certa sua decenza che considerava intuitiva la necessità di relativizzare. Sembrava dire, lasciate stare, un attentato, per di più fallito, è un’altra crocchetta da masticare per denti scettici, e lo scetticismo è la mia dentatura, sebbene abbia corso un rischio mortale. Alla giovane promessa mediatica, lui che non poteva evitare la fase del solito stronzo né quella finale, così poco a lui somigliante, del venerato maestro, consigliò di fare come lui di fronte alla blandizie e all’invidia di quel mondo e di tutti i mondi: “Fa’ come facevo io. Dopo ‘Bontà loro’, dopo l’esplosione del successo, mi aggiravo negli studi della Rai e non la finivo di lamentare un gran mal di testa, cercavo comprensione e compassione”. Alla fine ha ottenuto decisamente di più, che non sarà un memorabile salotto Rambouillet, ma è quello che voleva e che meritava la sua perizia indiscussa nell’inquadrare l’uomo comune e nel farsi inquadrare da lui come fratello ipocrita in carne e ossa. 

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  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.