Lapresse

Tradizione e modernità

La mamma, le cover e quel che impedisce il “sublime” Sanremo

Massimo Adinolfi

Per spiegare il rapporto degli italiani con il Festival non servono astrazioni. C'entra piuttosto la psicoanalisi e la sublimazione: quel processo di presa di distanza dal primo oggetto d’amore attraverso cui si passa alla vita adulta

Sublime: non c’è altra parola. Invece qualche altra parola ci deve essere, per parlare di Sanremo e della quintessenziale serata delle cover. Se il pubblico e perfino la critica si sperticano in applausi per Albano-Morandi-Ranieri, e per i sessant’anni di “Fatti mandare dalla mamma” (non vorrei apparire ingeneroso, ma fa sessant’anni pure “Blowin’ in the wind”), qualche ragione ci sarà, ma non può stare dalle parti del sublime. Anzi: deve stare da tutt’altra parte. Se infatti la categoria del sublime è tornata in circolo, per decifrare alcuni aspetti della sensibilità contemporanea, è per via del suo rapporto con l’astrazione. “Il sublime è adesso”, scrisse Barnett Newman nel 1948, cioè dopo gli orrori della Seconda guerra mondiale, che l’artista provava a trascendere nel silenzio quasi ieratico di immagini liberate dal peso della storia e dall’usura delle parole: nessun oggetto, nessuna figura, nessun segno, quel che si vede nelle tele di Newman è muta presenza. Mi pare evidente che con Sanremo e le gare canore proprio non ci siamo

 

Ma non ci siamo neanche per un’altra ragione, che forse spiega qualcosa del rapporto degli italiani con Sanremo. Qui, però, c’entra la psicoanalisi e la sublimazione, cioè quel processo di presa di distanza dal primo oggetto d’amore – e dalle pulsioni che esso organizza – attraverso il quale si stabilizza una vita adulta. Presa di distanza, cioè strappo, interruzione, che è precisamente quel che si produce dinanzi a un oggetto che supera le nostre capacità di rappresentazione (grosso modo, è questa la definizione kantiana del sublime). Ora, qual è il primo oggetto d’amore da cui ci si allontana, il viluppo emotivo elementare che va strappato? Ma lo sanno tutti: è la mamma. E dunque: se c’è la mamma in platea (o ti manda a prendere il latte), se il cantante scende a portarle i fiori, come nel caso di Tananai, l’altra sera, non c’è esperienza del sublime. Ma non c’è esperienza del sublime neanche se si cantano le cover. Altro che interruzione o rottura! La gommosa persistenza della tradizione musicale non è attestata solo dalla riproposizione delle canzoni del passato, ma pure dalla scelta di portare sul palco le proprie stesse canzoni di una volta, o di duettare con artisti che ripropongono le loro stesse canzoni di una volta. Quelli che hanno pescato nel mare aperto, scegliendo canzoni che non c’entravano nulla né con Sanremo, né con il proprio repertorio più o meno recente, né con l’ospite con il quale si sono esibiti sono stati una sparuta minoranza.

 

Io però lo so che la parola “sublime” non la si spende in omaggio allo Pseudo Longino, o all’estetica kantiana, e neppure con un occhio alle tele di Newman e all’espressionismo astratto, ma per gusto dell’enfasi, perché suona come un superlativo. Lo so, e forse può apparire pretestuoso esser partito di lì. Anzi: lo è sicuramente. Ma non l’ho fatto solo per dire che, ragazzi, con l’arte contemporanea le canzonette di Sanremo non c’entrano nulla. Al contrario: l’ho fatto per dire che noi italiani, noi che “sublime” vale quanto “bellissimo” a cui invece si oppone in ogni vocabolario estetico ben scritto, questo tentiamo ogni volta di fare: tenere insieme l’una esperienza e l’altra, tradizione e modernità, continuità e rottura, bellissimo e sublime. Ovviamente, non è Sanremo il luogo in cui tutto ciò si dimostra, però un’indicazione il Festival la dà. E comunque non si sa mai: manca ancora la serata finale, quella che lascia senza parole (sublime) e che invece di parole ne fa versare a fiumi (copyright dei Jalisse, e degna conclusione del tutto).