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Il perbenismo in tv ha un prezzo che noi italiani non possiamo più permetterci

Costantino della Gherardesca

C'è davvero ancora qualcuno interessato a programmi pieni zeppi di buoni sentimenti e anime belle? O qualche inserzionista pronto a comprare spazi pubblicitari in questa eterna processione di moralisti televisivi?

So che non è elegante ripetere “ve l’avevo detto”, ma visto che la storia continua a darmi ragione, mi trovo costretto a ribadirlo: i buoni sentimenti sono la morte della televisione. Sterilizzare i contenuti della tv è una strategia insulsa, reazionaria e – soprattutto – antieconomica. Perché il perbenismo ha un prezzo che noi italiani non possiamo permetterci.

Certo, negli anni Cinquanta, quando sull’Italia aleggiava ancora lo spettro del Dopoguerra, aveva senso proporre una tv talmente pedagogica da suonare pedante, una tv che ti insegna non solo le buone maniere, ma le basi del vivere civile: saper leggere, scrivere e lavarsi. Oggi, però, le cose sono cambiate: la Nigeria sta conquistando il crescente (ed enorme) mercato mediatico africano. E lo fa con fiction e soap opera piene di personaggi alla Scorsese: cristiani avventurieri e senza scrupoli. Allora perché in Italia abbiamo ancora una televisione così compassata, noiosa e fasulla?

Il resto del mondo dà spazio a personalità ingombranti, cerca ambientazioni poco confortevoli e punti di vista che provano a riscrivere la storia. In Gran Bretagna un personaggio come Big Narstie è diventato un beniamino della tv generalista, e negli Stati Uniti addirittura un’istituzione ingessata come quella degli Oscar si è ritrovata spolverata a suon di sberle, perché lo star system americano ha ancora qualche anticorpo fuori controllo. Da noi, invece, la giostra gira al contrario: i palinsesti sono sempre farciti di programmi e personaggi mosci. Come fai a sorprendere se sei pieno di censure e paletti? Non stupiamoci se tra i nostri innocui fenomeni comici non abbiamo George Carlin o una serie tv come “Arrested Development”, nella quale l’illegalità era il pane quotidiano dei protagonisti e la vera fonte del divertimento.

Anche il tentativo di rianimare la tv a botte di influencer, nella speranza di trasformare in audience i loro milioni di follower, non sta in piedi. Il futuro della tv non lo scriveranno i sacerdoti del culto delle Nike in edizione limitata. Continuiamo questo accanimento terapeutico per tenere in vita carriere e contenuti che non hanno più ragione di prosperare, promuoviamo una televisione manierista, che ricama su stili di conduzione, di regia e di scrittura che riecheggiano quelli dei decenni scorsi. E se il pubblico giovane volta le spalle al televisore, non è perché è generazionalmente portato a ignorarlo: anche un ultraquarantenne con mutuo e prole a carico fatica a rivedersi nella tv italiana.

C’è davvero ancora qualcuno interessato a programmi pieni zeppi di buoni sentimenti e anime belle? C’è davvero ancora qualche inserzionista pronto a comprare spazi pubblicitari pur di accordarsi a questa eterna processione di moralisti televisivi? Secondo me (e secondo qualsiasi attendibile ricerca di mercato) sempre di meno.

In Italia siamo messi peggio di Hedda Gabler, la protagonista dell’omonimo dramma di Henrik Ibsen. Bramosa di essere ammirata da una società che la ignora, Hedda tesse una tela di menzogne che finirà per soffocarla e, sopraffatta dai sensi di colpa, chiude la sua corsa al successo con una revolverata che manda al creatore lei e la creatura che porta in grembo.

Hedda è una perfetta allegoria della televisione italiana. Proprio come lei, la tv nazionale fonda la sua offerta su una domanda che non ha posto nessuno. E per rispondere a quella domanda inesistente, costruisce palinsesti come se fossero quartieri brutalisti, dove tutto è apparentemente solido e incrollabile, dove tutto è come è sempre stato. Ma nel grande quartiere-dormitorio della tv italiana, il piano regolatore non ha previsto un parco giochi. Non è stato ritagliato uno spazietto in cui giocare, sbagliare, cadere e sbucciarsi le ginocchia. Uno spazio per sperimentare, creare qualcosa di nuovo.

Questa tv ideologicamente monolitica ha il fiato corto, perché non rappresenta la realtà in cui viviamo. Non è più un luogo di intrattenimento, bensì di adattamento istituzionale. E non è un palazzone di cemento come vorrebbe farci credere, ma niente più che un castello di carte, pronto a collassare su se stesso come la rete di menzogne di Hedda.

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