"The Shrink Next Door", il paziente ebreo e lo strizzacervelli per un “Parasite” negli Hamptons

Mariarosa Mancuso

La recensione della nuova miniserie su Apple+ Will Ferrell e Paul Rudd, tratta da una storia vera. Dirige Michael Showalter, il regista di “The Big Sick” e “The Eyes of Tammy Faye”

"Ogni riferimento a fatti e persone reali è puramente casuale”. Questa la sappiamo, serve a chi inventa storie e non vuole incappare in spiacevoli coincidenze. Oppure a chi finge di inventare storie, e invece scopiazza la vita cambiando solo i nomi. Più arzigogolato lo scarico di responsabilità in apertura di “The Shrink Next Door”, la nuova mini-serie su Apple+, con Will Ferrell e Paul Rudd. E dunque: “La serie è basata su eventi realmente accaduti. I dettagli e la cronologia sono stati rimaneggiati per scopi drammaturgici”.    

 

Fin qui, vuol dire che gli sceneggiatori e il regista hanno fatto il loro mestiere: le storie vere non hanno quasi mai l’arco drammatico giusto per tenere sveglio lo spettatore. Poi arriva la precisazione numero due: “Le somiglianze dei dettagli rimaneggiati con fatti e persone reali sono puramente casuali”. A prova di bomba: se qualcuno protesta, viene zittito: “Ma non sei tu, è un tizio inventato”. 
      

Ma che razza di storia richiede tante cautele? La storia di uno strizzacervelli, la porta accanto si riferisce al primo che l’ha raccontata, il giornalista Joe Nocera. Lo psicoanalista era il suo vicino di casa negli Hamptons, in giardino c’era un addetto che potava e puliva la piscina. Scoprì che il vero proprietario della villa era il tuttofare in tuta da lavoro con la carriola. L’altro era il dottor Herschkopf che lo aveva in cura da anni. Nella prima seduta gli aveva promesso: “Nessuno approfitterà più delle tue debolezze”. Missione compiuta, ora ad approfittarsi dello sventurato paziente Marty Markowitz era solo il suo medico curante. Marty gli aveva raccontato i suoi guai spinto dalla sorella, che a sua volta si era consultata con il rabbino.
  

Siamo tra il “garment district” di Manhattan (lo stesso che avevamo visto, a uno stadio precedente della sua evoluzione, in “Marvelous Mrs Maisel”: lì hanno la ditta i genitori del marito fedifrago) e le sinagoghe di Lincoln Square e Park East. Nel bel mezzo di una disputa con un affezionato cliente che voleva un tendaggio senza fodera, Marty scappa a nascondersi come si era nascosto in bagno, durante il bar mitzvah. Si capisce che non è in grado di gestire l’azienda ereditata dal padre. Neanche di placare le furie della fidanzata appena scaricata: “Mi avevi promesso un viaggio in Messico, e comunque me lo devi pagare”.
    

Joe Nocera si era appassionato alla storia del vicino-sanguisuga, ricavandone un podcast. I titoli di testa della mini-serie sembrano puntare invece sull’edera velenosa. Dirige Michael Showalter, il regista di “The Big Sick” (love story multietnica con grave malattia) e “The Eyes of Tammy Faye” (predicatori che fanno soldi in tv, prima di essere smascherati). A dispetto delle mille cautele, un po’ di reazioni irritate si registrano. Perfino Sarah Silverman, constatato che due attori su tre non sono ebrei (non lo è Will Ferrell e neppure Kathryn Hahn, la figlia rabbina in “Transparents”) si è chiesta se l’andazzo continuerà. O se invece gli attori ebrei cominceranno a combattere per appropriarsi dei loro ruoli. E dire che sembrava una ragazza spiritosa, capace di distinguere tra rivendicazione e recitazione. 
     

Lo strizzacervelli Paul Rudd insegue le celebrità, con addosso camicie rosa di Ralph Lifschitz – è il vero nome di Ralph Lauren. Organizza feste, sempre in casa di Marty che di suo nella villa con piscina non sarebbe andato mai. “Il tuo problema è che sei ricco”, gli spiega dopo aver inventato il “bar mitzvah terapeutico” (serve quando il paziente è bloccato ai mali di stomaco dei suoi tredici anni). E dopo essersi fatto intestare una fondazione. “Parasite”, senza l’attenuante della miseria.
 

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