“Anna” in versione serie tv conferma la bravura profetica di Ammaniti

Mariarosa Mancuso

“La Rossa” e il mondo post-apocalittico popolato da ragazzini

Bello quando leggevamo “Anna” – il romanzo scritto da Niccolò Ammaniti nel 2015 – e il virus che provocava macchie rosse sulla pelle e poi la morte degli adulti somigliava soltanto a “La maschera della Morte Rossa”. Lo spaventoso racconto di Edgar Allan Poe ambientato durante una pestilenza: i ricchi gaudenti si chiudono nel castello, gozzovigliano e organizzano feste mascherate. Tra gli invitati, avvolta in un sudario macchiato di sangue, si intrufola la Morte Rossa e fa una strage.

 

“La Rossa”. Così viene chiamata la devastante malattia all’inizio di “Anna”, la serie che Niccolò Ammaniti ha tratto dal suo romanzo – dal 23 aprile su Sky e Now Tv: sei episodi disponibili subito, caloroso invito al binge watching. Chi dice colpisca solo gli anziani, chi sostiene sia una banalissima influenza, chi sospetta un virus scappato da un laboratorio, chi teme le mutazioni. Benvenuti del 2021. Complimenti alla bravura profetica di Nicolò Ammaniti, il più bravo scrittore italiano che già con “Il miracolo” aveva dimostrato doti non comuni da regista. Per la cronaca, le riprese erano già in corso quando il romanzo – e la sceneggiatura scritta con Francesca Manieri, un nome ricorrente nei crediti delle serie e dei film italiani che vale la pena vedere – ha fatto cortocircuito con il mondo là fuori.

 

Un attimo prima che arrivino i virologi in tv, siamo in Sicilia. Una città in rovina, e poi la casa di campagna dove una donna si rifugia con i figli Anna e Astor: Giulia Dragotto e Alessandro Pecorella, per la prima volta in tv, disinvoltissimi. Film e serie post-apocalittiche ne abbiamo viste tante. Più raramente mondi popolati solo da ragazzini, qui la pubertà uccide (mancavano gli adulti in “Un gioco da bambini” di James Ballard, ma si era in un complesso residenziale poco fuori Londra, e i giovanetti in modo non pacifico si erano ribellati all’autorità). A tramandare quel che si deve sapere – nel tentativo di sopravvivere perché, si dice, da qualche parte, forse al di là dello stretto, stanno lavorando a un vaccino – è un “Quaderno delle cose importanti” che la madre riesce a compilare tra un sussulto di tosse e l’altro. Il suo scheletro è ancora sul letto di casa, ornato di fiori e chincaglierie, somigliante ai cadaveri appesi nella Cripta dei Cappuccini di Palermo. 

 

Niccolò Ammaniti regista ha occhio e gusto. A volte realistico, a volte melodrammatico, a volte fantascientifico (quella fantascienza che non vaga nello spazio ma si aggira alla “Mad Max” tra le rovine della nostra civiltà, in luoghi ormai sepolti dalla spazzatura). C’è da sperare che la prossima volta tocchi a “Che la festa cominci”, film o come serie a insindacabile scelta dello scrittore-regista: moriamo dalla voglia di vedere i satanisti dell’Agro pontino che nascondono i panni rituali nei sacchetti del supermercato.


Bisogna procurarsi il cibo, e difendersi dai misteriosi Blu con la faccia dipinta. Il piccolo Astor non deve allontanarsi da casa – una pezza di stoffa segna il confine, ma se di là c’è un barattolo la tentazione è troppo grossa (“Bollite tutto”, aveva scritto la mamma: ricorda “The Road” di Cormac McCarthy, quando padre e figlio trovano la lattina di Coca Cola ancora frizzante). Gli episodi sono ben costruiti, partono con una scena forte e poi i crediti scorrono sui filmini di famiglia (sembra incredibile, ma a furia di voler essere originali spesso sfuggono le basi della serialità). Noi abbiamo già un debole per i gemelli, i figli del fu bottegaio che barattano cibi e altro. Uno ha già qualche bubbone rosso. Sa che peggiorerà, e hanno un piano: “Ci chiudiamo dentro il negozio e ci mangiamo tutto quanto”. 

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