Il ritorno dei Casamonica. Quando la fiction è meglio della realtà

Manuel Peruzzo

Zingari in mutande che urlano di spegnere la telecamera, presunti Al Capone al piano bar, giornalisti che aspirano essere Roberto Saviano e ricostruiscono il potere mafioso con il metodo Report. Il documentario di Trocchia su Nove

Dove non sono riusciti i Casamonica è riuscita la normativa anti-Covid: alla Romanina, periferia sud di Roma, hanno chiuso il Roxy Bar per cinque giorni. C’erano clienti che facevano colazione e violavano le norme bevendo il cappuccino al bancone. È il bar in cui a Pasqua del 2018 due Casamonica saltavano la fila per le sigarette a schiaffoni e calci. La titolare ha denunciato, Mattarella le ha conferito il cavalierato dell’Ordine al Merito della Repubblica, ora la multa. La scena dell’aggressione si vede nel documentario di Nello Trocchia, “Casamonica - Le mani su Roma”, le cui repliche vanno ancora in onda sul Nove: zingari in mutande che urlano di spegnere la telecamera, presunti Al Capone che farfugliano My Way al piano bar, giornalisti che aspirano essere Roberto Saviano e ricostruiscono il potere mafioso con il metodo Report, anche se di mafioso è rimasto ben poco dopo la sentenza della Cassazione su Mafia Capitale. Anzi nulla. Ma che importa? La fiction è meglio della realtà. E poi la distinzione tra mafia e associazione a delinquere è più o meno la stessa che c’è tra Roma nord e Roma sud: fuori Roma non frega a nessuno, forse neppure agli imputati. Come diceva Massimo Bordin: “Uno che prende 20 anni anziché 28 si rallegra, entro certi limiti”.

 

La prima cosa da notare, guardando il documentario di Trocchia, è che per fortuna non tutti gli immigrati sono integrati. Il grande non detto di questa vicenda è che chi ha denunciato è straniero: Roxana Roman titolare del Roxy Bar è rumena, il marmista Medhi Denhavi col naso rotto è iraniano, l’uomo a cui hanno dato il cacciavite nel petto per aver sorpreso gli zingari svuotargli il furgone è nigeriano. Forse è perché sono più coraggiosi o forse perché non si sono abituati a vivere a Suburra. Pienamente integrati invece i Casamonica, come si vede dalla migliore scena in assoluto del documentario, quella in cui la sindaca Raggi, con sottofondo musicale degli Avengers, descrive una normalissima attività di abbattimento di villette ripugnanti con il tono di una che ha salvato il mondo, e loro piangono: “Non ci hanno dato manco un giorno di tempo per sgumbrerare, nun c’hanno chiesto gniente”.

 

La storia è andata così. Raggi ha dormito in Campidoglio, l’appuntamento è con 500 vigili al buio e al freddo, facendosi coraggio per un’operazione mai fatta prima. Lo sbarco in Normandia è in realtà svegliare questi criminali in pigiama che iniziano a lanciare le ciabatte e mandare a fare in culo la Raggi. Si entra in quella specie di Versailles del kitsch, un filo sotto i castelli bavaresi disneyani di quel frocione di Ludwig, con le tigri in porcellana e le sedie in cavallino, l’idea d’eleganza che hanno i rapper miliardari americani unita a quella dei sinti in ciabatte. C’è persino un Salvini sorridente che dice: “Ruspare la villa di un mafioso è qualcosa per cui vale la pena fare il ministro”. L’amministrazione comunale pare abbia dovuto pagare seicento mila euro per abbattere quelle case, e due settimane fa Luciano Casamonica intervistato da Giletti si è chiesto perché solo a lui hanno buttato giù la villetta abusiva nel quartiere. Che ingiustizia! La domanda giusta sarebbe perché non buttano giù anche le altre, ma la risposta è perché non c’è un sindaco iraniano.

 

La sindaca è una cinquestelle romana in campagna elettorale, sempre a fotografare aiuole e spartitraffico nuovi come successi della propria amministrazione. Per riqualificare i quartieri s’è inventata lo “Spaccio-Arte”, il progetto artistico nelle periferie romane per “lanciare un messaggio forte e decisivo nella lotta a qualsiasi forma di illegalità”. E come intendono strappare il territorio alla MAFIA? Fanno girare un bus per queste piazze con il manto stradale di Beirut e la spazzatura abbandonata come in Malesia, ci sono gli stornelli romani che fanno da dissuasore agli spaccini, che ti fa subito venire voglia di farti di eroina (d’altra parte è la stessa gente che s’era inventata la Notte dell’Onestà in cui gli attori recitavano le intercettazioni della procura). Una scena di inarrivabile tristezza, questo bus che gira a vuoto, inquinando e rompendo i coglioni a chi magari vorrebbe riposare, o persino drogarsi in silenzio. E quel che colpisce è l’estetica penitenziale della cultura in periferia che pare “a piedi scarzi” di Emanuela Fanelli: non c’è neppure una carrozza, un volante d’oro, dei petali lanciati dall’elicottero, un neomelodico al pianobar. Insegue i Casamonica senza esserne all’altezza. Aspettiamo il bus vada a fuoco perché il cerchio si chiuda.

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