Foto di Sam McGhee via Unspalsh

Le serie tv hanno bisogno di complessità

Gianmaria Tammaro

La diversificazione non può essere solo una risposta politica e di circostanza e non deve essere un capo d’accusa. Appunti dalle candidature agli Emmy Awards

Lo scorso febbraio il New York Times ha pubblicato un lunghissimo editoriale firmato da Brit Marling (attrice, sceneggiatrice e co-creatrice di “The OA”), in cui, tra le altre cose, si parlava della necessità di andare oltre la bidimensionalità e di provare a immaginare i personaggi femminili come qualcosa di più della moglie, della madre, della vittima, e qualcosa di diverso dall’eroina senza paura, invincibile e inarrestabile. C’è bisogno di complessità, sottolineava la Marling. E ce n’è bisogno ora, in questo momento, mentre si sviluppano sempre più serie, mentre i produttori sono interessati a sentire e ad ascoltare, e mentre il pubblico è più critico e consapevole.

 

La diversificazione è diventata una di quelle questioni fondamentali, di cui si parla tanto ma di cui non si riesce a definire con precisione scopi, utilità e controindicazioni (vedi, per esempio, le nomination agli ultimi Emmy Awards). Di diversificazione si può parlare a livello di scrittura, a livello di produzione, e anche a livello di messa in scena, e quindi di casting e di regia. Ma è importante ribadire una cosa, e cioè: la diversificazione non può essere solo una risposta politica e di circostanza; ma deve anche affondare le radici nella concretezza, nel cambiamento effettivo, e trovare nella qualità – più che nella quantità – una prova sufficiente per la sua esistenza.

 

Insomma: una serie tv deve colpire perché è bella, perché ben fatta, perché appassionante, perché i suoi personaggi dicono qualcosa, e lo dicono bene, intelligentemente. Non per il nome che c’è dietro. Bisogna provare a ragionare come spettatori. E non solo come commentatori terzi, occasionali, che guardano al marketing e alla pubblicità. Per diversificare, bisogna partire dall’inizio, dal momento del pitch, della trama, della nuova proposta. Un produttore deve stare attento a non ripetersi, e deve stare attento a trovare qualcosa di nuovo e, soprattutto, di diverso – una storia di donne raccontate, per esempio, da donne; una storia di razzismo scritta da chi, il razzismo, l’ha vissuto in prima persona. Serve genuinità. E insieme alla genuinità, serve quella cosa di cui parlava anche la Marling: la complessità.

  

Euphoria” (Sky), che è un remake di una serie israeliana e che si è affermata come uno dei fenomeni dell’ultima stagione televisiva, è stata scritta da Sam Levinson. La protagonista, Rue, è interpretata da Zendaya, nominata agli Emmy. Si parla di giovani, di sessualità, di confusione, di presenti neri e insuperabili, e di paure senza via d’uscita. Levinson, queste cose, le ha viste. Toccate con mano. Provate. Ed è riuscito a dare vita a un racconto non banale, non già visto, ma così potente da raggiungere più tipi di pubblico in più modi.

 

 

In “Unorthodox” (Netflix) le scrittrici (Anna Winger, Alexa Karolinski), la showrunner, la regista (Maria Schrader) e la protagonista (Shira Haas) sono tutte donne. Ma nessuno ne ha mai parlato partendo da questa premessa. Se ne è sempre parlato per la sua bellezza, per la sua qualità, per la sceneggiatura credibile e incredibile, e per il lavoro straordinario fatto dagli attori (la Haas? Nominata anche lei). In “Unorthodox”, la diversificazione raggiunge più livelli, tocca più momenti, e colpisce lo spettatore per la sua coerenza.

 

  

The Marvelous Mrs. Maisel” (una vagonata di nomination) e “Fleabag” di Amazon Prime Video sono scritte e interpretate da donne, e tuttavia non si sono mai nascoste dietro le loro autrici o le loro interpreti; hanno avuto successo per la loro qualità e la loro ironia. Nella prima, c’è tanta esperienza da chi le serie tv le fa e le ha fatte per tanto tempo (Amy Sherman-Palladino ha creato anche “Una mamma per amica”); e nella seconda, c’è la freschezza di un nuovo punto di vista come quello di Phoebe Waller-Bridge (cercare nuove idee, metterle a frutto, diversificare: eccoci).

 

E poi ci sono “Atlanta” di Donald Glover (Fox Italia) e “Master of None” di Aziz Ansari (Netflix): da una parte, c’è la prospettiva di un giovane afroamericano che vive di e con la musica, che cerca la sua strada e il suo posto nel mondo, e che più volte, nel corso della sua vita, viene discriminato; dall’altra, c’è la visione di un figlio di immigrati, che prova ad affrontare l’età adulta insieme ai suoi amici, senza cedere sulla sua identità, su quello che gli è stato insegnato e su quello che prova.

 

La diversificazione non deve essere un capo d’accusa; non deve limitarsi a intervenire in un momento successivo, quando tutto è già stato detto, fatto e girato; e non deve essere una minaccia con cui pungolare canali e piattaforme, produttori e scrittori. La diversificazione deve essere naturale – facile a dirsi, lo so. Ed è, oggi, uno specchio della nostra società: perché non siamo tutti bianchi, etero e uomini; perché non c’è solo una voce che conta; e perché, come diceva la Marling, la scelta non è mai solo tra due estremi, ma tra un’infinità di sfumature. Ed è di questo che sentiamo l’urgenza: di sfumature.

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