Addio Homeland

Giulia Pompili

E’ finita la serie tv che ci ha spiegato quanto potesse essere necessario e umano il lavoro della spia

Roma. Otto stagioni dopo, “Homeland” è finita. Ieri sera è andata in onda in Italia, su Fox, l’ultima puntata della serie tv di Alex Gansa e Howard Gordon, che in quasi cento episodi ha spiegato l’intelligence ai millennial. Perché “Caccia alla spia” non è la prima e non sarà l’ultima serie tv dedicata ai servizi segreti – dieci anni prima, proprio subito dopo l’11 settembre, c’era stata “24” – ma è quella che più di tutte ha avvicinato, spiegato e forse umanizzato alcune dinamiche, nel tentativo certo romanzato di dargli un significato concreto, una specie di antidoto al complottismo più becero. L’intelligence esiste perché serve, con tutte le sue decisioni difficili e pragmatiche. I primi a portare lo spionaggio, quello vero, in televisione erano stati gli israeliani. E infatti il soggetto di Homeland, nel 2011, fu scippato a Gideon Raff che aveva firmato “Hatufim” (Prigionieri di guerra). La storia di tre soldati che tornano in Israele dopo diciassette anni di presunta prigionia ispira quella di Nicholas Brody, sergente dei Marine interpretato da Damian Lewis che torna a casa dopo essere scomparso per otto anni in Iraq, e non si sa bene cosa voglia. La donna che sospetta di lui, l’agente della Cia Carrie Mathison (Claire Danes), finisce poi nel più banale dei trucchetti: si innamora di Brody e ci fa anche un figlio. Ma “Homeland” non è solo la banalità della serie tv, è anche un continuo insistere sul rapporto di fiducia che l’agente è costretto a stabilire con la propria fonte, una danza di cui solo l’operativo conosce i confini.

   

 

Nel corso di otto stagioni “Homeland” si è evoluto nei temi e nelle ambientazioni geografiche. Come hanno ripetuto spesso gli showrunner Gansa e Gordon, ogni stagione è stata pensata subito prima della realizzazione, e in alcuni casi la corrispondenza con l’attualità era formidabile: nella quarta stagione Carrie Mathison è a capo della stazione della Cia in Afghanistan, riceve la notizia della possibile presenza di un terrorista in un’area rurale del Pakistan, e decide di autorizzare l’attacco con un drone; nella sesta stagione, si parla della prima presidente donna Elizabeth Keane che vuole ridurre l’operatività americana all’estero, c’è un giornalista che somiglia moltissimo ad Andrew Breitbart, ci sono i negoziati per il nucleare con l’Iran.

 

Nell’ultima stagione, quella che si è chiusa ieri, si parla dell’accordo con i talebani, degli equilibri d’influenza tra russi e americani in medio oriente. Ok, aveva una credibilità storico-politica un po’ azzardata, fanno notare gli esperti, ma l’elemento pop e semplificato serve anche ad avvicinare le persone a certi argomenti. In “Homeland” geopolitica e storie personali s’incastrano per intrattenimento, ma rendono anche più facile la comprensione di alcune “evoluzioni” non solo della cronaca estera, ma anche dei personaggi. Dopo aver scoperto che l’attacco col drone aveva fatto quaranta vittime, ma non aveva eliminato l’obiettivo della Cia, il personaggio di Carrie evolve per varie puntate (non molla subito, anzi diventa più ossessionata dalla ricerca del terrorista – lo spiega lei stessa nel corso dell’ultima stagione). Eppure i suoi problemi psichiatrici si amplificano – soffre, a fasi alterne c’è da dire, di disturbo bipolare – e alla fine lascerà l’agenzia, ma senza mai lasciarla davvero. Con le sue crisi e i suoi fidanzati che vogliono fregarla, reclutarla oppure solo portarla a letto, con il suo rapporto di quasi amore e quasi paternalismo con Saul Berenson (interpretato da Mandy Patinkin, un altro personaggio straordinario della serie), in otto stagioni Carrie è diventata un’icona, l’agente della Cia che risolve i problemi, che fa di testa sua, ma pure una che frigna, piagnucola, che deve prendere il litio, che molla la figlia dalla sorella per andare a fare sesso in hotel, insomma una umana. Talmente umana che ha un enorme problema di borse. Ne ha scritto Sarah Miller sul New York Times, del suo odio per la borsa a tracolla di Carrie Mathison. “Le borse a tracolla tagliano a metà le forme e sono stupide. Tra l’altro, se tutto ciò di cui hai bisogno è il telefono e la carta di credito, perché non te li metti in tasca?”, ha scritto la Miller, e lo ha domandato alla costumista Katina LaKerr, che ha spiegato: “Carrie è una supereroina, la borsa a tracolla era l’unica scelta”. Homeland è finito ma ha il grande merito di averci spiegato che l’intelligence è un lavoro necessario, ma le spie non sono più James Bond.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.