Phoebe Waller-Bridge ritira il premio NME nel 2017. E’ lei uno dei personaggi dell’anno televisivo appena trascorso (LaPresse)

Le feste in (mini)serie

Mariarosa Mancuso

E’ arrivato il momento dell’anno in cui finalmente si può riaccendere la tv. Da Fleabag a Chernobyl, ecco quello che vi siete persi (ma il migliore è un reality sulla cucina vittoriana)

La nuova frontiera. Ce n’è sempre una, anche se esaurito il giro del mondo – o dell’universo seriale in streaming – si finisce per tornare al punto di partenza. Archiviate le gioie dell’algoritmo e certe classificazioni di stampo sofistico (un giovanotto dagli occhi a mandorla e una ragazza punk si conoscono un venerdì da Greta, coltivano cavoli lontano dalla plasticosa città, finisce a coltellate) Netflix inaugura un nuovo trend. Consigli e raccomandazioni di fattura umana, non più matematica. Più o meno la scoperta dell’acqua calda.

 

L’algoritmo suggerisce cose simili a quelle già viste. Senza arrivare ai vertici sopraffini di Steve Buscemi nel film “Ghost World” di Terry Zwigoff – “non voglio conoscere ragazze che hanno i miei interessi, io odio i miei interessi” – la sventolata di film funerari proposti dall’algoritmo dopo la nostra visione ravvicinata di “Russian Doll” e di “Kidding” con Jim Carrey risultò piuttosto fastidiosa. Come spiegare a una macchina la differenza tra morti da commedia nera e morti da lacrimuccia sentimentale? (a volte neppure gli umani la capiscono).

 

 

Le due serie sono di soddisfazione, in contrasto con la melassa festiva. Ma per quanto un cibo piaccia, la monodieta viene a noia. “Russian Doll” (di e con Natasha Lyonne, più altre due sceneggiatrici in gamba) ricorda il racconto “Le mille e una morte” di Jack London. O se preferite “Il giorno della marmotta”: una ragazza dai capelli rossi muore all’inizio della primo episodio, risuscita, muore di nuovo e di nuovo risuscita, ma solo per andare incontro a tante altre morti (ogni volta cerca di imparare dall’esperienza: evita la scala antincendio, non attraversa la strada senza guardare, non si fa sfuggire di mano l’asciugacapelli: precauzioni inutili, eviti la scala e cadi nella buca). La seconda è “ridi pagliaccio”, ovvero “the show must go on”: l’attore comico Jim Carrey – ribattezzato Jeff Piccirillo – continua dopo la vedovanza il programma tv per bambini. Va ricordato, per un sovrappiù di assurdità, che Jim Carrey crede di essere la reincarnazione di Andy Kaufman, comico anni 70 che girava mascherato, come Sacha Baron Cohen quando fa Borat.

 

  

La tv via cavo Hbo aveva già inaugurato l’estate scorsa il sito “Recommended By Humans”. Personaggi famosi come Zach Efron (classe 1987) che consiglia ai Millennial “L’esorcista” di William Friedkin (girato nel remoto 1973). Personaggi che famosi non sono, e spezzano le catene dell’algoritmo consigliando le loro serie predilette. Liberi noi di farci guidare da chi ci somiglia o da chi non ci somiglia, purché competente. Il “ti consigliamo questo perché hai guardato quest’altro” – ovvero la catena infernale che vincola ai gusti e agli umori scaduti (ma a voi diverte vedere serie o film sempre uguali?) potrebbe essere sostituito dalle “collection”, al momento in fase sperimentale. Liste ragionate, diciamo così. Già noi malpensanti siamo in allarme: i consiglieri umani non saranno faccine disegnate, finti come le massaie che rispondevano ai quesiti delle casalinghe in materia di cucina e bucato?

 

  

Algoritmo o passaparola, in cima alla lista per le feste sta “La fantastica signora Maisel”, geniale invenzione di Amy Sherman-Palladino. Una casalinga perfetta dell’Upper West Side che dopo aver accompagnato il marito giù al Greenwich Village – lui si fa regolarmente fischiare alle serate per dilettanti del Gaslight Café – viene lasciata per la segretaria. Ubriaca di vino kosher, in camicia da notte sotto il cappotto, Mrs Maisel sale non annunciata sul palco del locale, dettaglia le corna e mostra le tette: “chi non vorrebbe tornare a casa da loro ogni sera?” (applausi scatenati). Inizia una brillante carriera da cabarettista, e un’amicizia con lo scandaloso Lenny Bruce. Il talento comico si era visto, per la verità, al pranzo di nozze, quando la fresca signora Maisel aveva annunciato al rabbino e agli ospiti: “ci sono gamberetti negli antipasti”. Panico da cibo proibito, neanche avesse annunciato salsicce di maiale. Fuga scomposta degli invitati. Timido ritorno ai posti di combattimento quando si capisce che è una battuta.

 

 

Sempre in tema di ragazze, molto ben messa nella lista degli imperdibili è “Fleabag” di Phoebe Waller-Bridge (non siamo altrettanto fiduciosi sulla riverniciatura a lei affidata del prossimo James Bond diretto da Cary Fukunaga, “No Time to Die”, in uscita il prossimo aprile: chi guarda i film di 007 per uscirne femminista?). Meglio il “sacco di pulci” – questo vuol dire il titolo – della via crucis politicamente corretta che anche quest’anno prevede “The Handmaid’s Tale” di Bruce Miller. Tre stagioni finora, e già la prima esauriva “Il Racconto dell’Ancella”, quasi dimenticato romanzo di Margaret Atwood uscito nel 1985 – la scrittrice canadese ne ha scritto subito un altro, poi dicono che la tv non fa nulla per la cultura.

  

 

Attenendoci alle raccomandazioni personali, abbiamo gettato la spugna all’inizio della seconda stagione: siamo anime semplici che non capiscono perché bisogna mostrare tanta violenza contro le donne, per deplorare la violenza contro le donne. Meglio il “sacco di pulci” – scritto, diretto e recitato da un’attrice e scrittrice geniale che cominciò con un monologo da ragazza scombiccherata e bugiarda all’Edimburgh Fringe Festival del 2013 – dell’altra miniserie obbligatoria se volete dirvi spettatori impegnati. Parliamo di “Unbelievable”, tratta da un reportage pubblicato da ProPublica e sceneggiato tra gli altri – tra le altre, per essere precisi – dallo scrittore Michael Chabon. Sono gli interrogatori di polizia alle vittime di violenza, poverette indotte in confusione mentre il colpevole se ne sta tranquillo in libertà. Meglio il “sacco di pulci” – “Fleabag”, appunto – che fissa gli spettatori e non si vergogna di nulla. In questa seconda stagione ha messo gli occhi su un fascinoso sacerdote, e facilmente passa a vie di fatto, insomma lo molesta. La serie è britannica, targata Bbc. Quindi il sesso è un po’ meno noioso rispetto alle piattaforme streaming che – facciamo un nome a caso – cacciano dal catalogo Woody Allen (sbrigatevi a vedere “Un giorno di pioggia New York”, così possiamo finalmente commentare senza timor di spoiler il discorso della mamma, e la smettiamo di celebrare il discorso del papà alla fine di “Chiamami con il tuo nome” by Luca Guadagnino).

 

  

La miniserie “Chernobyl” di Johan Renck parrebbe poco adatta alle feste – per chi non odia i festeggiamenti al punto da invocare un disastro nucleare (esistono persone così e non sono spregevoli come pensate). Ma i racconti sotto l’albero – come insegna Charles Dickens che li inventò – prevedono sempre un po’ di horror, se non sono spettri vanno bene le radiazioni. La storia è vera, i russi minacciano una loro serie per raddrizzare le falsità, che tarda ad arrivare. Difficilmente sarà ben sceneggiata e ben girata come la versione made in Usa. Nel frattempo, abbiamo appreso (da Giuliano Ferrara) che esiste la vodka Atomik, cru Chernobyl e dintorni, ideale per annaffiare gli episodi.

 

  

You” era la serie – un tempo sfigata, di grande successo quando è passata su Netflix – che segnalava i molti punti di contatto tra lo stalker e il fidanzato ideale (calma e sangue freddo, niente furia, rifletteteci: entrambi sono attenti a voi come un fidanzato normale neppure si sogna, studiano le vostre mosse, cercano di indovinare i vostri gusti, sono interessati a quel che fate, e per il compleanno impacchettano qualcosa di leggiadro, non la palla da bowling che Homer regala a Marge (“ma come, non ti piace?”). La seconda stagione di “You” è su Netflix da ieri (i neofiti possono recuperare la prima, unica serie che a nostra memoria inizi in una libreria, posto da maniaci e non più rifugio di spiriti elevati). Lo stalker Joe Goldberg si trasferisce a Los Angeles, dove incontra una ragazza che si chiama Love. Il giovanotto non è sui social network, nota la padrona di casa. Rassicurata però dall’impeccabile passato creditizio (non finirà bene).

 

  

Se non volete le ragazze, buttatevi su “Succession” di Jesse Armstrong, prodotto da Hbo (in Italia su Sky Atlantic) e quindi esente dai difetti che Netflix concede alle proprie serie, grazie agli indici d’ascolto tenuti segreti, e a un business concentrato sull’annuncio dei titoli nuovi. La storia di una famiglia che somiglia tanto ai Murdoch è costruita secondo le regole. Ogni episodio di “Succession” ha il suo arco drammatico, e la storia comincia subito, non al terzo episodio dopo due d’atmosfera (“non è una serie, piuttosto un film di dieci ore” vale come colossale scemenza, non è per questo che ci siamo innamorati delle serie). I Roy operano nei media, travolti da un mercato che cambia con la velocità del fulmine, e dopo l’ictus del patriarca affrontano il passaggio generazionale. Ci provano, almeno, senza troppi spargimenti di sangue. I maschi cercano di escludere la figlia più sveglia di loro. Il primogenito fa pasticci. Il genero vorrebbe impicciarsi. Nella seconda stagione, un feroce e spassoso confronto tra la ricchezza antica e la nuova. Da lassù, Shakespeare approva trame e personaggi.

 

  

Tutte le serie nominate sono recuperabili, se non le avete viste dalla prima stagione e volete fare un lavoro ordinato (i titoli trasmessi in Italia da Sky sono su Sky on demand). Per quelle non nominate – sentiamo già fare l’elenco dei dispersi, è l’altra faccia delle liste – sappiate che le feste non sono infinite. Poi però, assaggiati i piaceri e preso il vizio, sarà difficile smettere. Su Vulture, per esempio, oltre ai consigli su cosa vedere si leggono raccomandazioni salutistiche: i chicchi d’uva ghiacciati sono un ottimo snack, per dimenticare i biscotti alla Nutella.

 

Il vero guilty pleasure sta su YouTube, trovato grazie alla soffiata di un amico che non finiremo mai di ringraziare. Lo trovate cercando “The Victorian Way”: una cuoca con la cuffietta, l’abito a fiori e il grembiulino, che in una cucina d’epoca insegna a cucinare come usava ai tempi della Regina Vittoria. Se ha bisogno del burro lo ordina alla servetta che prende la panna, la mette nella zangola, gira la manovella e dopo un’ora il panetto è pronto, avvolto nello strofinaccio. Da aromatizzare al timo se la cuoca lo desidera. Molto più divertente – e appetitoso, soprattutto – di Masterchef e dintorni. Torna in mente un Grande Fratello che i britannici avevano organizzato in una casa vittoriana, senza acqua calda né elettricità. Una concorrente scappò via urlando quando le dissero che avrebbe dovuto lavarsi i capelli con il tuorlo d’uovo.

 

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