Guardare After Life e imparare che gli altri sono una possibilità

Senza un filo di retorica o di buonismo, la serie Netflix di Ricky Gervais insegna che per sopravvivere al dolore non servono grandi ricette se non cominciare a guardare davvero quello che già abbiamo

Gaia Montanaro

Della bravura di Ricky Gervais poco si può mettere in dubbio. Dai tempi di The Office passando per i suoi show di stand up comedy ed arrivando alle esperienze come presentatore della cerimonia dei Golden Globes – quattro volte in totale – l’attore inglese pluripremiato ha sempre dimostrato grande identità e carattere in tutte le sue espressioni, fatte di humor nero tagliente, di risate politicamente scorrette e di dilagante cinismo. Ma questa volta Gervais fa un passo in avanti e con la dramedy After Life, serie in sei episodi da mezz’ora disponibile su Netflix da lui scritta, prodotta e interpretata, mette in campo tante corde diverse mai tradendo la sua identità ma anzi esaltandola al massimo.

  

Viene raccontata la storia di Tony, giornalista in un quotidiano locale ben poco stimolante, che deve cercare di sopravvivere alla scomparsa della moglie Lisa, morta di cancro da poco, che ha lasciato al marito dei videomessaggi per spronarlo a non lasciarsi andare e a mostrare a tutti l’animo buono di cui lei si era innamorata venticinque anni prima. Ma Tony sembra essere sprofondato in un vortice di non senso del vivere, che sfoga prima di tutto in altalenati pensieri suicidi e poi sui suoi colleghi, sul suo direttore e cognato, sulla nuova giovane praticante arrivata al giornale. Tony incontra Daphne, prostituta del paese a cui affida il compito di pulirgli casa, e Julian, addetto alla distribuzione dei giornali e dipendente dall’eroina con la quale cerca di scacciare il senso di colpa per una tragedia del suo passato. Accanto a loro fanno da contrappunto le visite che Tony fa al padre che si trova in una casa di cura – affidato alle attenzioni di una premurosa infermiera – e le conversazioni con Anne – vedova il cui marito è sepolto accanto a Lisa – che Tony incontra spesso al cimitero quando va a trovare la moglie. Ed è proprio legato al rapporto tra Anne e Tony, che condividono un dolore simile e che per questo sono affidabili l’uno agli occhi dell’altro, il fulcro del cambiamento che pian piano matura nella consapevolezza di Tony e quindi nel suo modo di guardare il mondo.

 

A loro sono affidati i dialoghi più sorprendenti – profondi nella loro apparente semplicità e lineari perché veri, reali – che fanno commuovere, ridere e piangere nell’arco di una sola scena. Senza un filo di retorica o di buonismo, impariamo attraverso Tony, o meglio con lui, che sopravvivere al dolore significa “rimanere in giro e fare in modo che il mio piccolo mondo sia migliore”, che non servono grandi ricette per stare meglio se non cominciare a guardare quello che abbiamo – quello che già abbiamo – ma di farlo davvero. Guardare gli altri come una possibilità e vivere anche per poter essere questa possibilità nell’esistenza degli altri. Che siano i tuoi colleghi, i tuoi amici e perfino il tuo cane. Gervais dice tutto questo, ma lo dice meglio. Fa parlare la vita dei suoi personaggi, imperfetti e veri. Solo così si può affrontare quello che ci aspetta, “l’After life” che è semplicemente una vita diversa da come la conoscevamo prima. Ma è pur sempre vita. “La felicità è meravigliosa. È così bella che non importa se è tua o no”. E per questo ne vale la pena.

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