Netflix schiacciatutto

Eugenio Cau

Il servizio fa una gran trimestrale e avanza nella sua strategia da operatore generalista

Roma. Nelle ultime settimane c’è stata molta attesa intorno ai risultati trimestrali di Netflix, pubblicati martedì notte: tutti pensavano che avrebbe fatto un tonfo e che sarebbe cominciato un momento di crisi per l’azienda di streaming di Reed Hastings, visto che le ultime trimestrali erano andate così così e il numero di nuovi abbonati si andava assottigliando sempre di più. Al contrario, Netflix ha battuto le previsioni degli analisti, aggiungendo 6,96 milioni di nuovi iscritti nel terzo trimestre dell’anno, molti di più dei 5 milioni previsti. Di questi, 1,09 milioni di nuovi iscritti arriva dal maturo mercato americano, che tutti pensavano fosse ormai saturo. I mercati sono stati così deliziati dalla sorpresa che il titolo di Netflix è salito del 15 per cento, trascinando al rialzo buona parte della Borsa americana. Netflix ha ormai raggiunto uno stadio avanzato della sua strategia di produzione di contenuti, nella quale ha speso miliardi di dollari (è prevista una spesa di tre miliardi per il 2018 e una altrettanto grande per l’anno successivo, poi dovrebbe calare). L’azienda ha fatto il passaggio definitivo da “servizio di streaming che distribuisce in gran parte contenuti altrui” a “casa di produzione vincitrice di premi internazionali con annesso un servizio di streaming”, e un dato in particolare contenuto nella lettera agli azionisti sembra confermare il successo della strategia: nel totale delle ore che gli spettatori trascorrono a guardare contenuti video su Netflix, anche i titoli di maggior successo ammontano soltanto a una “percentuale molto inferiore al dieci per cento”. “La nostra crescita non è attribuibile in nessun trimestre a un contenuto specifico”, si legge nella lettera, e questo significa: anche i successi più fenomenali, le serie di cui tutti parlano, quelle incensate dalla critica e dal pubblico, quelle che sembra che tutti abbiano visto, da “House of Cards” a “Stranger Things”, in realtà fanno un 4-5 per cento dello “share” totale di Netflix.

 

Questa è una notizia notevole per l’azienda, perché significa che Netflix è diventato un operatore generalista. Il suo successo non dipende da pochi titoli di eccezionale qualità – come può essere per Hbo, che ha già il problema di trovare un sostituto a “Game of Thrones” – ma dalla marea di contenuti, spesso frivoli, che Netflix riversa in massa sulla sua piattaforma e che la rendono ancora più generalista di un mezzo come la televisione: mentre in tv è normale che un programma faccia il 10-15 per cento di share, su Netflix lo share è eccezionalmente frammentato, perché tutti guardano tutto, lo spettatore trangugia i contenuti più disparati, e non abbandona la piattaforma quando è finita la stagione della sua serie preferita.

 

Questo non significa che le serie di alta qualità non servano più, anzi. Il giornalista Derek Thompson, nel suo libro recente “Hit Makers”, spiega che gli operatori come Netflix dipendono grandemente da quei titoli che definiscono il servizio come un “qualcosa da avere” anche se magari al momento in programmazione non c’è niente che ci interessi. Tutti sanno che Netflix produce serie e film di qualità, e si abbonano (o mantengono il loro abbonamento) perché si fidano del fatto che Netflix continuerà a sfornare una serie di cui tutti parleranno e che sarà da vedere. In attesa della suddetta serie, però, divorano i documentari sul cibo, i cartoni animati, i film scadenti, le vecchie sitcom, i reality, trasformandosi nel pubblico più variegato della storia. Il fatto che Netflix non abbia un prodotto di punta testimonia la sua forza davanti agli spettatori, ed è un monito per gli operatori tradizionali: più che concentrarsi sui prodotti della fascia più alta e orchestrare boicottaggi molto pubblici durante i grandi festival del cinema, dovrebbero preoccuparsi per il fatto che Netflix va fortissimo dappertutto, anche nei settori più popolari, dai reality ai cartoni animati.

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.