Mica solo Conte. Analisi dei curricula arrivati per il cda Rai: che disastro

Simonetta Sciandivasci

La fine della consapevolezza delle proprie doti. Parla l'esperto Silvio Ripamonti

Dal primo curriculum dell’elenco delle candidature a componenti del Consiglio di amministrazione della Rai, pubblicato sul sito del Senato: “Dichiaro di essere in possesso della licenza media; di aver fatto il capo treno; di non avere carichE pendenti, di essere recordman mondiale di petizioni inoltrate al Parlamento Italiano - 14 anni nel libro Il Guinness dei Primati; d’esser maestro del lavoro”. Scritto a penna, faxato, bollato.

 

Dall’ultimo cv, dopo data di nascita e residenza: “Cresce in montagna dove per oltre 30 anni gestisce con la famiglia un rifugio estivo. Scala le più alte vette del mondo”. In mezzo, prof. universitari che sottolineano di aver “maturato notevoli competenze”, d’esser stati “insigniti di diversi premi e riconoscimenti” (ma quando? Dove? Da chi? Perché?), buyer dalle “capacità e competenze professionali acquisite nel corso della vita ma non necessariamente riconosciute da certificati e diplomi ufficiali” (quindi mandiamo una squadra di scrutatori a chiedere ai vicini di casa?); autori di “numerosissimi saggi”; crocerossini allenatori di pallavolo; individui che non specificano il proprio impiego ma esordiscono con un “Vision: l’apprendimento e l’innovazione continua sono elementi strutturali di successo”; avvocati che si raccontano in ventidue cartelle e non hanno neppure la scusa dell’età, perché hanno meno di quarant’anni.

 

Nanni Loy ne avrebbe fatto un capolavoro; Garrone, se desidera, ha materiale per un altro Reality; Scola ci manca e basta. Cinema a parte, l’Italia è questa qua: non si cura di conoscere i poteri forti, intende guidarli senza giacca e cravatta, zeppa di targhe e targhette, vuol esser scelta per ciò che è, e non conta per andare a fare cosa, a quello si baderà poi (forse).

 

“Sembra che le persone si lancino spinte più dal desiderio di accedere a una carica ambita che dalla congruità delle proprie esperienze professionali”, dice al Foglio Silvio Ripamonti, docente di Psicologia all’Università Cattolica di Milano, che ha letto molti di quei curriculum. “E’ un movimento massiccio: la competenza maturata nell’arco di una vita professionale si disancora dalle ambizioni. D’altronde, in tv e in politica si accede a notorietà e responsabilità in modo indipendente da un percorso professionale in cui si sia consolidata una competenza precisa”. Sarà che “adesso tocca a noi”? “Penso a qualcosa di più profondo: l’incapacità di raffigurarsi un luogo di lavoro e le sue sfide specifiche; la trascuratezza nel valutare la congruenza del proprio percorso di carriera con il contesto e le richieste di una organizzazione e di un ruolo particolare. Lo vedo anche dai curriculum che mi arrivano: c’è una tendenza forte a voler coprire ogni ambito del proprio settore, a dichiararsi versatili, a proprio agio in tutto. Per contro, c’è carenza di persone che offrano una competenza distintiva, cioè di quello che le aziende cercano: qualcuno che faccia la differenza”. Chissà, forse il signore dei record di petizioni potrebbe farla. “C’è di peggio: c’è il penalista che ha inserito tre pagine sulle sue esperienze teatrali: in che modo servirebbero nel cda di un’azienda?”. Ce lo dica lei. “Anziché semplificare e dire quali sono le tre cose che sai fare meglio, dici di poterne fare trecento. L’ipertrofia dell’io induce a certificarti come buono a tutto, a presidiare il campo”. Ma non a giocare. “Questi lunghi rendiconti di carriere, alcuni anche interessanti, hanno tutti lo stesso limite: lasciano le competenze sullo sfondo”. Ha visto la foto del candidato che se ne sta in mezzo a un gruppo scultoreo di lupi di bronzo? “Deve aver pensato che lo rappresentasse e qui c’è uno dei nodi: conta di più chi e come sei di quello che sei chiamato a fare”. Ci siamo convinti che il ruolo ci si debba cucire addosso? “Qualcosa del genere”.

 

Ha visto quante soft skills? Gli espertoni sostengono che il successo di un colloquio sia proporzionale alle qualità personali del candidato. “Anche lì ho rintracciato un punto debole comune: si tratta di elencazioni non supportate da esempi concreti, nessuna indicazione di situazioni che ne attestino lo sviluppo. Se dici che sai lavorare in gruppo, che sei disponibile, intraprendente e tenace– ed è vero che alle aziende interessano queste caratteristiche – ma non specifichi dove hai maturato queste doti, capisco che stai solo tentando di soddisfare un canone di desiderabilità sociale”. Insomma, furbizie da manoscritto di esordiente. “Chiamiamole ingenuità”. A cosa serve un curriculum? A leggere questi viene il sospetto che la cooptazione garantisca un reclutamento migliore. “L’obiettivo di un cv è comunicare le proprie competenze in funzione di un ruolo professionale”. Assumerebbe qualcuno di questi candidati? “Ci sono profili interessanti. Quello di Fabrizio Del Noce è uno dei meglio scritti: chiarisce perché il candidato, nel ruolo a cui ambisce, sarebbe utile all’azienda”. E sempre alla vecchia casta torniamo. La nuova aspirante tale deve ancora imparare a candidarsi, ma almeno – onestà-tà! – non ha “cariche pendenti”.

Di più su questi argomenti: