Il filosofo errante

Albert Otto Hirschman amava i palindromi, le sciarade, i bisticci, i calembour, i double entendre, i mot juste di Flaubert e i versi immacolati di Goethe. In una parola, amava la parola. Negli anni Settanta, quando era ormai da tempo uno degli economisti e scienziati sociali più rispettati del mondo, ha coinvolto alcuni amici fissati con i palindromi nella fondazione del 4W Club, che già nel nome conteneva una parodia delle 5W della comunicazione classica. Lo scioglimento della sigla era “Where We Went Wrong” e i membri del club si dedicavano alla composizione di giochi di parole molto raffinati. Il pen friend che dava più soddisfazione a Hirschman era il poeta guatemalteco Augusto Monterroso, al quale scriveva con trasporto esclamazioni di gioia a doppio senso di lettura: “Amo idioma!”.

    Albert Otto Hirschman amava i palindromi, le sciarade, i bisticci, i calembour, i double entendre, i mot juste di Flaubert e i versi immacolati di Goethe. In una parola, amava la parola. Negli anni Settanta, quando era ormai da tempo uno degli economisti e scienziati sociali più rispettati del mondo, ha coinvolto alcuni amici fissati con i palindromi nella fondazione del 4W Club, che già nel nome conteneva una parodia delle 5W della comunicazione classica. Lo scioglimento della sigla era “Where We Went Wrong” e i membri del club si dedicavano alla composizione di giochi di parole molto raffinati. Il pen friend che dava più soddisfazione a Hirschman era il poeta guatemalteco Augusto Monterroso, al quale scriveva con trasporto esclamazioni di gioia a doppio senso di lettura: “Amo idioma!”. La sua poesia palindroma più riuscita s’intitola “Senile Lines”, un gioiello plurilingue – ovviamente intraducibile – di perfezione formale e concettuale, un po’ Educazione Sentimentale e un po’ settimana enigmistica: “I / Revolt Lover / Foe of / Party Trap / Evil Igniting I Live / Naomi, Moan! / Maori, Roam! / Harass Selfless Sarah! / Die, Id! / Nein Sein! Rêve: Nada, Never”. Mentre nell’Africa del nord aspettava di potersi unire alle truppe americane, alla sua Sarah faceva notare con entusiasmo un’espressione francese perfetta incontrata per caso, perché “la buona poesia produce lo stesso effetto di una grande invenzione. E’ così semplice, ma bisogna pensarci!”. Tutta la sua vita è costellata di parole, in forma di libri, articoli, lettere, diari alla maniera di Cervantes, appunti, note a margine, “temi da sviluppare” annotati su fogli improvvisati, registri che si confondono in un multistrato sforzo letterario orientato di volta in volta a un tema diverso, dai sistemi economici dei paesi in via di sviluppo alla poesia tedesca. Joseph Brodskij diceva che “per uno scrittore esiste soltanto una forma di patriottismo: la sua attitudine per il linguaggio” e lo storico di Princeton Jeremy Adelman nella sua monumentale biografia di Hirschman pubblicata di recente in America fa notare che “la parola era innanzitutto il rifugio per un uomo senza patria”. Questa mente straniata cercava la parola perfetta come un viandante cerca il focolare della locanda in una notte d’inverno.

    Hirschman è stato economista, sociologo, scienziato politico, filosofo, ma ogni definizione va ricompresa in quella prescientifica di letterato, un devoto della parola che trovava nel linguaggio il sistema di riferimento che la sua storia di émigré non gli aveva concesso. Si è sempre dedicato, scrive Adelman in “Worldly Philospher: The Odyssey of Albert O. Hirschman” (Princeton University Press), a un’attività soltanto: “La pratica della scienza sociale come letteratura”. Per questo la passione per i palindromi e i giochi di parole non è la stramberia di un genio solitario e vagamente autistico; piuttosto la ricerca nei dettagli delle “anomalie che dischiudono qualcosa di nuovo a proposito dell’intero”. Il grafema letto secondo il costume latino porta un significato, al modo arabo un altro, al modo asiatico un altro ancora, secondo uno schema che introduce nuove variabili alla perfezione formale del quadrato del Sator. La variabile indecifrabile, imprevista, ancora sottesa e pronta a dispiegarsi soltanto per generare nuove variabili era uno dei rifugi prediletti della sua patria linguistica, e negli ultimi anni della sua vita scherzava con il grande antropologo Clifford Geertz su quegli accademici che erano rimasti vittime della “regola numero uno delle scienze sociali: quando un fenomeno sociale viene interamente spiegato, cessa di accadere”. Scrive Adelman: “Hirschman era uno scettico che prediligeva le anomalie, le sorprese, e il potere degli effetti collaterali, forze che a volte era più facile trovare nella letteratura. Qualunque versione si affermasse come ortodossia – aggiustare la differenza con il dollaro in Europa attraverso l’austerità, la fiducia nella pianificazione economica degli anni Cinquanta, l’esaltazione per gli aiuti ai paesi stranieri negli anni Sessanta e il trionfo del libero mercato negli anni Ottanta – Hirschman si posizionava come ‘contrarian’. Questo perché aveva paura che l’ortodossia e la certezza escludessero le possibilità creative del dubbio, dell’imparare tramite le sorprese”.

    L’esclusione di possibilità creative è l’elemento che lo ha allontanato dall’ideologia marxista che correva a tutto vapore nella Berlino della sua infanzia, la capitale degli ebrei assimilati e una promessa di prosperità illuminata dopo l’umiliazione cocente della guerra. Le prime battaglie con gli insegnanti che volevano imprigionare le forze della storia in un sistema binario fatto di oppressori e oppressi, struttura e sovrastruttura, hanno dato un’impronta decisiva al ragazzo che tutti chiamavano soltanto con le iniziali “OA”, Otto Albert. Ribolliva in questa mente vorace il senso dell’inadeguatezza di qualunque spiegazione onnicomprensiva, perché la realtà sfugge sempre ai tentativi di contenerla in una griglia di leggi immutabili. Come se ci fosse una sproporzione incolmabile fra le facoltà del soggetto che indaga e la complessità dell’oggetto indagato. Un atteggiamento che, appunto per paradosso, lo affratellava alla saggezza aforistica di Kierkegaard – “Il piacere delude, la possibilità mai!” – dalla quale ricaverà il termine “possibilismo”, usato in tutt’altro senso rispetto a quello sbandierato all’epoca dalla frangia più riformista degli operai francesi. “Essere aperti a molte possibilità significava accettare l’incertezza e abbracciare il fatto che si poteva imparare dall’esperienza abbandonando la presunzione di conoscere tutto”. Il giovane OA era immerso nell’“era degli estremi”, circondato da ideologie apodittiche che non ambivano a meno che alla sistematizzazione di ogni cosa e dunque al perfezionamento dell’umanità. I nazionalismi, l’idealismo tedesco, il marxismo, le idee anarchiche, il capitalismo, le ambizioni imperiali, lo spartachismo affogato nel sangue e i sogni di prosperità che animavano la Repubblica di Weimar non ancora travolta dalla Gleichschaltung erano ideologie fra loro incompatibili nella prassi ma segnate ab origine da una passione titanica comune, la pretesa di impiantare un paradiso sulla terra al quale Hirschman non riusciva a credere. Erano promesse che contraddicevano i dati ricavati dall’osservazione della natura umana. All’uomo “perfettibile” Hirschman opponeva un uomo più modestamente “migliorabile”, uno che non gli avrebbe strappato via gli amici e la patria in nome di un’ideologia da imporre necessariamente con la violenza.

    Otto Albert era nato al centro di una contraddizione. Il padre, Carl, era un patriota impeccabile, amante di Goethe e devoto di Bismarck che alla moglie Hedwig, che in famiglia era soltanto Hedda, scrisse una lettera rammaricata per non essere stato in prima linea nella gloriosa conquista dello Jutland. Una delle strade più sicure e remunerative per un ebreo tedesco in quegli anni febbrili era dedicarsi alla medicina, cosa che Carl aveva fatto con grande zelo mettendo poi a disposizione della patria le proprie competenze una volta scoppiata la Grande guerra. Tutta Berlino si era riversata in piazza per festeggiare l’inizio del conflitto e alla nascita di Otto Albert, nel 1915, l’euforia non aveva ancora abbandonato la nazione. Carl sperava in cuor suo che nascesse proprio durante i festeggiamenti del centenario di Bismarck, ma il ritardo di una settimana non gli ha impedito di imporgli il nome del suo condottiero. Da una parte, c’era l’orgoglio nazionale paterno fomentato dalla guerra; dall’altra, montava il senso della grande disillusione. Di lì a poco le folle festanti diventeranno folle questuanti. Il razionamento del cibo è il motivo principale per scendere in piazza, l’entusiasmo nazionale scema e alla fine della guerra la repubblica di Weimar rappresenterà i sogni di ricostruzione della generazione dei genitori di Hirschman. Fino, naturalmente, all’arrivo di Hitler.

    Nel 1930, quando il Partito nazionalsocialista diventa la seconda forza parlamentare, il liceale Hirschman è immerso come tutti nell’ambiguità di una forza che si è fatta largo nel quadro democratico. Il suo professore di Educazione fisica era un nazista omosessuale che guidava gli esercizi ginnici con la svastica al braccio, ma tollerava senza problemi Hirschman, che era sì ebreo, ma era anche un atleta rispettabile. Molti anni dopo, in un tedesco levigato da decenni di peregrinazioni, si è trovato a raccontare a una scolaresca incredula della convivenza con i nazisti della prima ora. Non era ammissibile per le nuove generazioni che i nazisti fossero stati un tempo professori, compagni di classe, interlocutori, persino amici di qualcuno, come se si fosse perso nelle pieghe atroci della storia quel senso del chiaroscuro che è stato uno dei motivi perenni di Hirschman, sommo antagonista delle semplificazioni, della monodimensionalità, del tutto o niente. Quando il sogno di Weimar si frantuma, si rifugia a Parigi assieme alla sorella Ursula e lì incontrano nuovamente uno studente di filosofia conosciuto all’Università di Berlino, Eugenio Colorni. Colorni era un studioso di Leibniz immerso anima e corpo nell’antifascismo clandestino, un connubio di militanza e riflessione che riempiva d’ammirazione Hirschman, alla ricerca di una sintesi fra l’homme de lettre e l’attivista che albergavano in lui. A Berlino lo aveva mandato Pietro Martinetti, che un anno dopo la laurea del suo studente rifiuterà di giurare fedeltà al fascismo come imposto dal ministro Giuliano. Per Otto Albert è l’inizio di un sodalizio intellettuale che lo segnerà per tutta la vita, per Ursula è l’alba di un amore attraversato da molte nubi che porterà tre figli. Dopo la morte di Colorni, ucciso a pistolettate dalla banda Koch nella Roma occupata, Ursula sposerà Altiero Spinelli, alleato intellettuale e compagno di confino a Ventotene. Da quel matrimonio nasceranno altri tre figli. Attraverso Colorni, Hirschman entra in contatto con i fratelli Rosselli e il mondo giellista, viene esposto al pensiero di Gramsci, frequenta i circoli socialisti e liberali, assiste ai vagiti intellettuali che porteranno alla rifondazione del Partito d’Azione; nelle vie parigine affollate di ogni sorta di emigrati e intellettuali antifascisti si accende in lui la passione civile per una causa che abbraccerà fino al punto di partire per la Spagna con la prima ondata di volontari a fianco della resistenza repubblicana. Gli amici condividevano un proposito: “Dimostrare che Amleto aveva torto”. Il dubbio che immobilizzava il personaggio shakespeariano doveva trasformarsi in trampolino per saltare l’ostacolo successivo. Colorni era convinto della natura creativa del dubbio, forza che costringe a uscire dalle necropoli delle convinzioni assodate per entrare nell’ambito della verifica di strade alternative. L’influenza che quest’idea ha esercitato sulle tesi politiche ed economiche di Hirschman è enorme, ma allo stesso tempo descrive anche l’andatura della sua vita, fatta di svolte improvvise, balzi, serendipità, incontri casuali, scintille, retromarce, zig-zag, tutto un continuo dimostrare che Amleto si sbagliava, il dubbio non è l’anticamera della morte ma la nutrice di una nuova, inattesa vita. I tratti lineari della vicenda umana di Hirschman sono piccoli segmenti di transizione fra una rivoluzione e l’altra.

    Adelman sostiene che il filosofo avrebbe attribuito le coincidenze felici della sua giovinezza (e non solo) alla machiavellica Fortuna, dono puramente umano che va propiziato e allo stesso tempo sfidato. A guidare le sue sorti non è la mano della provvidenza, esclusa sin dall’educazione secolarizzata della famiglia ebrea assimilata, ma un’inquietudine tutta umana che nel giovane studioso immerso in un’Europa che va tingendosi di nero si combina in una strana reazione chimica con l’istinto di sopravvivenza. I suoi compagni di viaggio rimangono fedeli: Montaigne, Flaubert, Kafka, La Rochefoucauld, Omero, che leggeva direttamente dal greco mandando a memoria interi brani.
    Hirschman non era contento degli studi alla Hautes études commerciales e quando una lettera gli annuncia che ha ottenuto una borsa di studio per la London School of Economics sbriga al volo gli ultimi doveri accademici parigini, prende la valigia e parte per le vacanze estive a Forte dei Marmi, ultimo svago prima dell’immersione negli studi londinesi. Durante il viaggio finisce di leggere “I fratelli Karamazov”. Alla London School of Economics segue i corsi di Hayek ma gli studenti fanno la fila in libreria per comprare l’ultimo libro di Keynes; e così con i compagni va a Cambridge ad assistere alle lezioni dell’economista e mentre tutti i compagni ne rimangono immediatamente avvinti, lui rimane perplesso, stretto nella sua caratteristica impossibilità di risolversi in favore di una parte senza riserve. Da Londra la storia lo conduce in Italia, nella Trieste di Colorni, ma non prima dell’avventura spagnola, quella che rimarrà per sempre una parentesi taciuta, velata da una reticenza che nemmeno la moglie potrà perforare a distanza di decenni. Quando, dopo aver visto un film sulla guerra civile spagnola, lei le chiede se era davvero così, lui mormora soltanto: “E’ un buon film”, fine della discussione. A Barcellona non aveva visto soltanto la barbarie della guerra, ma anche il truce conflitto intestino per il potere nelle file dei repubblicani: “Una ragione per cui Hirschman ha preferito il silenzio – scrive Adelman – è che la vicenda spagnola è stata una fonte di amarezza e disillusione nei confronti di un ideale”.

    E’ a Trieste però che la composita formazione intellettuale di Hirschman prende a depositarsi in una concrezione matura. Il precoce studioso era abituato a immergersi in fretta nei nuovi ambienti: a Parigi nessuno avrebbe mai rintracciato le sue origini tedesche in una conversazione, nel clima stimolante dell’Inghilterra, dove aveva imparato “che cos’era davvero l’economia”, si era sentito a casa – qualunque cosa ormai volesse dire –  e ben presto anche l’italiano diventerà una della sue tante madrelingue adottive. Si laurea alla Facoltà di statistica di Trieste sotto la guida di Pierpaolo Luzzatto Fegiz, titolo che sarà convertito in un dottorato assai utile per la sua carriera americana, e studia l’economia del governo fascista. Gli anni triestini sono contraddistinti da un’incontenibile voracità intellettuale sempre accompagnata dalla dimensione militante, perfettamente riassunta dalle infuocate conversazioni nella libreria di Umberto Saba. Presto però le leggi razziali costringono Otto Albert all’ennesimo abbandono, mentre Colorni viene arrestato l’8 settembre del 1938 in quanto ebreo e antifascista e condannato a cinque anni di confino. Hirschman ritorna in Francia da clandestino, sotto il nome di Albert Hermant, con passaporto lituano, e s’unisce al sottobosco della resistenza francese. A Marsiglia si allea con Varian Fry, lo “Schindler americano”, e con il console americano Hiram Bingham che produce a ripetizione visti per traghettare presunti artisti oltreoceano sotto il naso della Gestapo. In meno di tre anni Hirschman aiuta quasi 2.000 antifascisti a lasciare la Francia e nel 1941 un visto con il suo nome gli dà accesso a una nave diretta a New York, sostenuto da una borsa di studio della fondazione Rockefeller e abbattuto dall’abbandono forzato dell’Europa dei suoi Goethe e Flaubert.
    Il suo ingresso in America gli costa una “n”, quasi una “c” e l’oblio di Bismarck. Fino a quel momento era stato Hirschmann, diventa Hirschman ma quando l’ufficiale gli propone di semplificare ulteriormente la grafia il giovane intellettuale rifiuta gentilmente. Chiede invece di poter essere registrato con il primo nome di Albert, il suo nom de guerre che aveva portato tanta fortuna nelle operazioni clandestine fra le bettole e i bordelli marsigliesi. Da New York si trasferisce quasi subito in California, a Berkeley, dove tutti gli domandano racconti dall’Europa mentre lui ha soltanto voglia di immergersi negli studi. E’ l’ennesimo inizio. Ne faranno seguito molti altri, dal servizio militare in Africa al placido impiego alla Federal Reserve di Washington fino alla folle idea di accettare un lavoro in Colombia, dove era in corso una sanguinosa guerra civile. Gli anni passati in Sudamerica “con un taccuino in mano, esaminando sistemi di irrigazione e parlando con le banche dei prestiti per gli agricoltori” si rivelano i più felici. E Hirschman lo sapeva. O, meglio, sapeva che non poteva sapere a priori che la trasferta sudamericana sarebbe stata un disastro. Se l’avesse saputo con certezza si sarebbe messo nella posizione paralizzante di Amleto. Un aspetto fondamentale che la biografia di Adelman mette in luce è che le teorie economiche di Hirschman s’applicano perfettamente all’andamento della sua vita. Il principio della “mano nascosta” elaborato alla fine degli anni Sessanta afferma ciò che Hirschman ha provato sulla propria pelle: “La creatività ci arriva sempre come una sorpresa; perciò non possiamo mai contare su di essa. In altre parole, non ci imbarcheremmo coscientemente in un’impresa il cui successo dipende dalla creatività. L’unico modo in cui possiamo sfruttare interamente le nostre risorse creative è quello di sbagliare giudizio sulla natura del compito, presentandolo come semplice, routinario e nient’affatto bisognoso di creatività”. Se gli ingegneri e i geologi del XIX secolo che hanno progettato la ferrovia che congiunge Boston al fiume Hudson avessero capito che la montagna da traforare nell’operazione era fatta di una pietra durissima, un costosissimo incubo, la ferrovia non sarebbe mai stata costruita. Il Massachusetts sarebbe uno stato immensamente più povero, le merci del New England molto più isolate e sul lungo periodo lo sviluppo dell’intero paese ne avrebbe risentito. E’ stato, con il senno di poi, un investimento eccezionalmente redditizio, ma allora nessuno avrebbe deciso di procedere se i tecnici avessero avuto fra le mani i dati esatti. Un errore li ha salvati. E’ un’ottima lezione per chi oggi vuole articolare teorie attorno a qualunque cosa basandosi sui Big data, una specie di cappio che si stringe attorno alla logica creativa del filosofo, ma è anche la descrizione accurata della vita di Hirschman, che una mano nascosta ha condotto alla conoscenza delle cose umane.