Charlie Brooker (foto LaPresse)

Il re degli show

Giulia Pompili

Charlie Brooker ha rivoluzionato il modo di fare tv. Comico, scrittore, sceneggiatore, grazie a lui dopo “Black Mirror” niente è più come prima

Vivi è un’assistente virtuale. Si comporta come se fosse la tua fidanzata, ma in realtà non esiste. E’ stata creata per invogliare i clienti dai 18 ai 35 anni ad abbonarsi al servizio di streaming di iQiyi, la società cinese di realtà virtuale finanziata da Baidu. I possessori del pacchetto possono avvicinarla, guardarla, farle domande (semplici). E lei fa tutto quello che le dicono: se deve consigliare un film da vedere in base ai gusti del cliente, è a disposizione ventiquattr’ore su ventiquattro, grazie alla sofisticata Intelligenza artificiale di cui è dotata. Ma quello che le chiedono i clienti è altro, e certo non riguarda la gestione della cineteca virtuale. Vivi però non si scandalizza: se deve ballare, balla. Se deve cantare, canta. E poi è sexy, sa sussurrare frasi come “devi amarmi e adorarmi”, ha lunghi capelli castani, gonna e camicetta aperta. Lo scandalo Vivi è scoppiato quando un noto quotidiano dell’establishment americano ha scritto che forse la società cinese si era spinta un po’ oltre, regalando agli utenti non tanto un’assistente virtuale ma “un’immagine della donna-oggetto”, lasciando che gli esseri umani flirtassero davvero con un avatar – un avatar molto simile alla realtà. Così iQiyi si è lasciata convincere, e Vivi è andata offline.

 

La storia (vera) di un avatar cinese che ti consiglia i film da vedere
ma soprattutto balla, canta e flirta. E' stato messo offline

La storia che vi abbiamo appena raccontato è accaduta davvero, qualche settimana fa. Ma somiglia incredibilmente a una delle cose più belle scritte da Charlie Brooker, ideatore e autore di una serie tv che ha rivoluzionato – meglio di tanti libri e pensosi saggi sul tema – il nostro rapporto con la tecnologia, “Black Mirror”. E’ il monologo finale della seconda puntata della prima stagione, “15 milioni di celebrità”, quando il protagonista Bingham “Bing” Madsen, che vive in un futuro distopico fatto di talent show e avatar, dice la sua “verità” sul palco, in diretta, davanti ai suoi “giudici”, mentre minaccia di uccidersi con un pezzo di vetro. “Volevo arrivare qui solo per farmi ascoltare da voi”, dice Bing, “Voi vi sedete lì, e noi ci mettiamo a cantare, a ballare, e tutto ciò che vedete voi qui sopra non sono degli esseri umani, ma carne da macello. E più mentiamo più vi piace perché la menzogna è l’unica cosa che vale ormai, è tutto ciò che possiamo sopportare. Anzi no. Ci sono anche il dolore, e la cattiveria. Mettiamo un ciccione su un palo e ridiamo di lui perché abbiamo imparato che è giusto […] Perché la disperazione ci ha fatto diventare così fuori di testa che non conosciamo niente di meglio. Tutto quello che facciamo è mentire e comprare stronzate. E’ così che ci parliamo, che ci esprimiamo: acquistando stronzate. Abbiamo dei sogni? Sì, il massimo è acquistare un nuovo cappello per il nostro avatar, un cappello che nemmeno esiste! […] Vorremmo che ci mostraste qualcosa di vero, di libero e bellissimo, ma non potete. Ci ammazzerebbe, diventeremmo pazzi. […] E quindi fanculo! Al vostro maledetto spettacolo, a voi che ve ne state lì e guardate le cose lentamente peggiorare. Fanculo ai vostri riflettori”, eccetera. A questo punto – e qui è il vero colpo di genio di Brooker – tutti ci aspetteremmo una catarsi, l’elevazione dello spettacolo, il disvelamento della verità, lo squarcio sul velo di Maya. E invece no, perché il monologo di Bing viene creduto una “performance”, e lui si adatta al nuovo status di performer. Gran parte della potenza di “Black Mirror” è questa: sa essere disturbante soprattutto quando la sceneggiatura indica un percorso possibile, anzi quasi probabile, e non è il frutto della demonizzazione della tecnologia (troppo facile, quelli del “i robot ci rubano il lavoro”) ma del nostro rapporto con essa, la sua umanizzazione, il nostro uso dei doni dell’ingegneria.

 

 

Cosa accadrebbe se. E’ questa la domanda “deliziosamente orribile” che Brooker usa per descrivere l’antologia di “Black Mirror” – la quarta stagione sarà disponibile su Netflix a partire dal 29 dicembre. Uno dei sei episodi di questa quarta stagione è diretto da Jodie Foster, che qualche sera fa al “Late Show” di Stephen Colbert ha commentato: “ArkAngel, come del resto tutto il mondo di Black Mirror, è incentrato sul nostro rapporto con la tecnologia. Racconta una storia di una madre e di una figlia, una madre che vuole tenere sua figlia al sicuro”. Parenting, ovvero una delle ossessioni della civiltà moderna (da cui poi le varie estremizzazioni, dalle mamme no vax a quelle delle risse per le recite di Natale dei figli). Uno dei punti forti della scrittura di Brooker è quello di riuscire sempre a tenere il filo conduttore, nonostante ogni episodio sia a sé stante, abbia una storia, un regista, attori diversi. Il merito di un successo simile si deve quasi tutto, quindi, a un personaggio particolare, eccentrico, un ex nerd dalle idee precise. “Le vecchie generazioni, egoiste e distruttive, tenevano compiaciute lezioni ai giovani sui loro diritti mentre vandalizzavano a caso il loro futuro”. Charlie Brooker non è un millennial. E questo depone a suo favore: è nato nel 1971, ed è quindi di quella generazione a metà, ibrida, divisa tra la rivoluzione tecnologica – sono cresciuti vedendo divenire possibile ciò che sembrava impossibile – e la generazione di quelli per cui niente è impossibile. “La Brexit è terribilmente complessa. Come progettare l’atterraggio sulla luna bendati, diretti verso un pianeta di stronzi molli dentro un’astronave di stronzi molli”, ha scritto su Twitter qualche tempo fa.

 

Nella nuova stagione c'è un episodio diretto da Jodie Foster: racconta
di una madre che vuole tenere
sua figlia al sicuro

E’ inglesissimo, Brooker, nato a Reading, nella contea del Berkshire, la stessa di Elton John, David Cameron e Kate Middleton, ma è cresciuto altrove, come raccontava lui stesso sul Guardian nel 2014: “Sono stato cresciuto come un quacchero, ma in modo rilassato, senza dare troppa importanza alle cose di Dio. Nessuno mi ha mai fatto vestire come l’uomo sulla scatola dei Quaker Oats. Però quando ho compiuto sedici anni ho ricevuto automaticamente una copia della rivista Il Giovane Quacchero, quindi il mio nome doveva essere in una specie di database nel quartier generale quacchero, ma perfino la rivista era deludente, priva di quella inquietante propaganda religiosa. Per la maggior parte era fatta di poesie e immagini di persone che indossavano maglioni fatti a mano. In pratica nessuno ha mai tentato di plagiarmi in un’età impressionabile. Alla fin fine la cosa migliore dell’essere quacchero era la mancanza di Dio nella mia vita. In quanto quacchero, potevo svignarmela durante le ore di religione della mia scuola elementare anglicana. Mi sedevo fuori dalla classe con gli altri compagni senza Dio, disegnando fumetti”. Brooker era da anni un volto noto del pubblico inglese, ma è il 2011, l’anno del lancio di “Black Mirror”, che la sua capacità di autore e sceneggiatore è arrivata oltreoceano. A metà degli anni Novanta Brooker faceva un lavoro che all’epoca era considerato da poveracci: recensiva videogiochi per una rivista specializzata. Nel 2000 fa il salto, e viene reclutato per scrivere sulle colonne del sabato del Guardian dove all’inizio recensisce programmi televisivi. Ma presto la sua rubrica finisce per trasformarsi in qualcosa di più libero, più comico. Anzi, cinico. Lancia Ignopedia, per esempio: siccome Wikipedia è un’enciclopedia fatta da tante persone che scrivono e correggono, Ignopedia è scritto da una sola persona, che non sa niente. Pubblica ogni settimana l’intervento di un lettore che spiega un argomento a caso, da Scientology al marketing. Brooker cerca costantemente il rapporto con i lettori, nel frattempo perfeziona la sua immagine da comico. Nel 2004 commenta la presidenza di George W. Bush evocando l’intervento di famosi assassini di presidenti, tra cui Lee Harvey Oswald. Il Guardian lo costringe alle scuse pubbliche.

 

Scrive Francesco Agostini su The Vision: “Il primo passo verso il mondo di ‘Black Mirror’ Charlie lo ha fatto aprendo un sito chiamato TvGoHome dove pubblicava una sorta di guida tv di programmi inventati, delle mini recensioni, surreali spunti per programmi televisivi fittizi dal carattere violento. L’idea era quella di prendere il mondo reality-factual che all’epoca stava esplodendo nella televisione inglese e ribaltarlo, violentarlo, renderlo un compendio delle nostre ossessioni e vanità”.

 

Quando "Black Mirror" passa da Channel 4 a Netflix la tv pubblica inglese, che aveva mostrato molto coraggio, si dice "delusa"

TvGoHome sta in piedi dal 1999 al 2003 – praticamente l’alba di internet. E mentre prende in giro la televisione, Brooker la scrive e ci lavora da protagonista. Firma un contratto con Channel 4, poi alla Bbc dove conduce gli “Screenwipe”: puntate da mezz’ora in cui si parla di argomenti seri, dalla politica all’attualità, ma con il linguaggio della satira. E’ qui che incontra Konnie Huq, famosa presentatrice della Bbc soprattutto per il suo ruolo in “Blu Peter”, un programma per bambini molto noto in Inghilterra. I due si conoscono sul set, si frequentano per nove mesi e poi si sposano, nel 2010, a Las Vegas – per la cronaca, e nonostante le distopiche conseguenze che avrebbe potuto immaginare Brooker sui matrimoni a Las Vegas, oggi i due stanno ancora insieme, hanno due figli, lei è addirittura apparsa alla cerimonia di premiazione degli Emmy di quest’anno, saltando però il red carpet con il vittorioso marito perché aveva “paura d’inciampare”.

 

Nel 2000 gli autori del “11 O’Clock Show” di Channel 4 fondano Zeppotron, una casa di produzione finanziata da Endemol. Ed è grazie a Zeppotron che Brooker produce i suoi successi d’intrattenimento, compreso “You Have Been Watching” e “How TV Ruined Your Life”.

 

Leggenda vuole che a un certo punto, visti gli innumerevoli successi, Brooker sia andato a Channel 4 a proporre i primi tre episodi di “Black Mirror”, e che ai vertici dell’azienda qualcuno abbia tentato di temporeggiare. “Mi immagino il pitch del primo episodio”, scrive sempre Agostini: “‘Immaginatevi degli estremisti che rapiscono una figura della famiglia reale e costringono il primo ministro inglese a scoparsi in diretta tv un maiale. Cosa ne pensate? Eh?’. Immaginate lo stesso pitch fatto a Rai Tre”.

Nel 2004 commenta la presidenza di George W. Bush evocando l'intervento di famosi assassini di presidenti. Poi si scusa

Eppure nel 2011 quel primo episodio del primo ministro che fa sesso con il maiale va in onda. E quando, nel 2016, “Black Mirror” finisce nelle mani pigliatutto di Netflix – grande inglobatore di diritti tv – Jay Hunt, direttore creativo di Channel 4, giustamente ci resta male: “Abbiamo trasformato un’idea pericolosa in un prodotto globale. Ovviamente siamo dispiaciuti che la prima trasmissione del Regno Unito venga venduta al primo offerente, ignorando il fatto che una tv pubblica come Channel 4 lo abbia sostenuto”. A ben guardare, il ragionamento di Hunt non è poi così sbagliato, almeno su un punto.

Abbiamo avuto per quattro stagioni il rivoluzionario “Black Mirror” grazie al genio di Charlie Brooker, ma anche grazie a qualcuno che, scommettendo su un tema nuovo, per molti incomprensibile, ha deciso di mandare in onda un prodotto difficile e a tratti scandaloso. Chissà se l’Italia sarà mai pronta per questo.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.