Renzi e Campo Dall'Orto, come una serie tv

David Allegranti

L’investitura, la missione, i disguidi, la rottura, la politica, l’azienda e il resto. Come si spiega la fine dell’amore tra il rottamatore e il dg uscente della Rai

Antonio Campo Dall’Orto? “E’ uno stimatissimo professionista, tra i più interessanti innovatori della tv italiana, un nome di altissimo valore” (Matteo Renzi, 4 agosto 2015). “Vorrei fare di cuore gli auguri di buon lavoro al nuovo direttore generale della Rai, uno dei più interessanti innovatori della tv in questo Paese e lo dico con tutto il rispetto per chi ha preceduto nei vari cda e direzioni generali Maggioni-Campo Dall’Orto”. (Matteo Renzi, 6 agosto 2015).

   

Campo Dall’Orto non è un passante nell’immaginario renziano, tant’è che appena due anni fa le parole di stima e vicinanza si sprecavano. Frequentatore delle Leopolde in un periodo in cui sostenere l’ex sindaco di Firenze non era ancora di moda (Campo Dall’Orto era sul palco nel 2011 a parlare di una generazione sempre connessa, riformatrice e non rivoluzionaria, pronta a cambiare il mondo “non appena ne avrà la possibilità”), teorico di una Rai “pop”, come spiegò al Foglio nel settembre 2015. “Essere pop, dal mio punto di vista, vuole dire essere in sintonia con la contemporaneità e vuol dire soprattutto pensare che le persone a cui la Rai deve parlare non sono solo quelle che oggi già vedono la Rai ma sono anche tutti coloro che per qualche motivo hanno deciso di non seguirci più”. Insomma, c’erano tutti gli elementi per un grande romanzo americano: il politico marziano che dice di volere un innovatore alla guida della tv di Stato, e quello – l’innovatore, marziano a sua volta – che ci crede. Campo Dall’Orto arrivò a Viale Mazzini convinto che il mandato fosse quello che Renzi aveva effettivamente pronunciato: fai quello che vuoi, e manda via i partiti dalla Rai. In effetti, per i primi sei mesi, Campo Dall’Orto ha potuto agire liberamente, portando con sé un fidato giro di consulenti (come il braccio destro Guido Rossi) e rispondendo poco al telefono alle chiamate della politica che bussava alla porta dell’ufficio. Solo che, e qui sta il malinteso, forse figlio dell’eccesso di entusiasmo di Campo Dall’Orto, i partiti andavano cacciati, ma solo quelli degli altri. Campo Dall’Orto insomma era convinto di essere arrivato in un posto normale, dove la politica non ha peso e dove a decidere sono gli ascolti e i conti in ordine, con il mandato rivoluzionario di liberare la tv di stato dal giogo della politica. Il tutto con il benestare di Renzi, naturalmente. “Tutto molto bello, sa qual è il problema però? Che Campo Dall’Orto ci ha creduto”, dice con una battuta un uomo di Renzi in Rai. Ed è così che l’ex manager di Viacom è diventato uno dei tanti amori estivi del segretario del Pd, di quelli che durano appunto qualche settimana d’agosto. Lì per lì sembra struggente amore eterno – e infatti a Campo Dall’Orto, cui già avevano costruito un cda su misura, che non potesse nuocergli, furono dati pieni poteri e fu trasformato in una sorta di amministratore delegato della Rai – salvo poi rivelarsi nella sua fatuità. Non è la prima volta che accade; l’avventura politica di Renzi è costellata di rotture e allontanamenti più o meno storici, si va da Pippo Civati a Carlo Calenda, da Roberto Perotti ad Andrea Guerra. Alcuni amori hanno fatto giri immensi e poi sono tornati, vedi Matteo Richetti o Giuliano da Empoli, ma la sostanza del problema resta.

     

Anche nel caso di Campo Dall’Orto, come in alcune vicende renziane, si fa fatica a capire dove inizino le motivazioni reali di un rapporto logorato e dove invece comincino le incomprensioni caratteriali, che di solito sono un elemento non secondario di rottura con Renzi; dove, insomma, stia la politica e dove, invece, la pre-politica. Fatto sta che i rapporti si sono via via interrotti. Prima si vedevano, magari in orari non consueti, quasi tutte le settimane, e si confrontavano. Già si incontravano, ancorché con minore frequenza, quando Renzi era ancora sindaco di Firenze, e Campo Dall’Orto scendeva 3-4 volte all’anno da Milano. La prima volta, nel capoluogo toscano, c’era anche Guido Rossi. Fu lo stesso Campo Dall’Orto, raccontano a Firenze, a chiamare Palazzo Vecchio per chiedere un incontro con Renzi, come in tanti facevano a quei tempi, attratti dal giovane rottamatore (alcuni di questi, poi, hanno preso altre strade). Qui le testimonianze divergono, perché Michele Anzaldi dice di essere stato lui a farli conoscere: “Campo Dall’Orto l’ho presentato io a Renzi, quando organizzavo le feste della Margherita, Campo Dall’Orto lavorava a Mtv e l’allora responsabile della comunicazione era Paolo Gentiloni. E’ un manager televisivo il cui curriculum è noto a tutti”.

    

Comunque sia, qualche anno dopo, Campo Dall’Orto si è ritrovato ai vertici della tv di Stato, con molti strumenti ma anche con molti avversari. Alcuni sono “di partito”, quindi il dg si trova sotto fuoco amico. Con Antonello Giacomelli, sottosegretario alle comunicazioni, non si sono mai presi. Quando Renzi chiede a Giacomelli, ex braccio destro di Franceschini, pratese, oggi molto vicino a Luca Lotti, che cosa ne pensi di Campo Dall’Orto, lui gli risponde che lo ritiene competente sul prodotto e sui linguaggi narrativi, un uomo adatto a dirigere una rete come Rai2, ma non lo ritiene adatto a fare il direttore generale. Giacomelli per due anni lo incalzerà, chiedendogli di fare ciò su cui Campo Dall’Orto costantemente ha tentennato: un piano news serio che non sia solo qualche slide, una riforma del numero delle reti e delle testate giornalistiche (solo per citare alcuni punti). Neanche le nomine di alcuni direttori dei tg nell’estate scorsa, un compromesso alle logiche della politica, con cui Campo Dall’Orto pensava di essersi salvato, bastano. “Avrei preferito vedere un piano industriale solido e convincente e un piano editoriale innovativo prima delle scelte sui nomi”, dice Giacomelli in un’intervista a Repubblica. Michele Anzaldi, deputato, membro della commissione di vigilanza Rai, spara un giorno sì e l’altro pure contro i vertici e contro il cda della Rai. Anzaldi ha prodotto esposti e segnalazioni all’ANAC sulle assunzioni di Campo Dall’Orto, che quando è arrivato in viale Mazzini ha provveduto ad assumere una ventina di persone, tra cui Gianpaolo Tagliavia (area digital), Giovanni Parapini (Relazioni istituzionali), Paolo Galletti (risorse umane), Carlo Verdelli (direttore editoriale informazione), Massimo Coppola (consulente) e altri, tutte nomine considerate non lineari dall’Anac di Raffaele Cantone, che le ha contestate. Nel febbraio 2017, Anzaldi ha presentato anche un’interrogazione per chiedere come la governance della Rai intendesse affrontare i rilievi dell’Autorità Anticorruzione, ricevendo risposte, a suo dire deludenti. Fu Anzaldi nel settembre del 2016, con un’intervista al Corriere della Sera (Anzaldi poi è diventato portavoce di Renzi alle recenti primarie del Pd), a certificare l’errore: “Dopo sei mesi, dobbiamo ammetterlo: su Antonio Campo Dall’Orto e Monica Maggioni ci siamo sbagliati. Da quando ci sono loro, la Rai è peggiorata tantissimo. Sia sul piano della comunicazione, sia su quello della trasparenza”. Ma con quel “ci siamo sbagliati” Anzaldi a chi si riferiva? Al Pd? A Renzi? Il deputato dice al Foglio che il segretario del Pd “non parla e non parlerà di Rai. Non è che ha cambiato idea su Campo Dall’Orto, ci sono dei fatti che sono evidenti.

    

Violazioni del pluralismo, mancanza di un piano news, il faro dell'Anac sulle assunzioni, Cantone che dichiara di aver inviato le carte alla procura. Arroganza e malagestione culminate questa settimana: per la terza volta al cda vengono presentate delle linee guida senza un piano vero e proprio, addirittura i consiglieri lamentano di non avere a disposizione le carte. Lo dicono loro stessi con interventi pubblici. La consigliera Borioni su questo ha lanciato un atto d'accusa molto pesante e circostanziato. Per non parlare della chiusura delle trasmissioni. Sono stati cancellati programmi come Scala Mercalli e Ambiente Italia. Sono stati chiusi Ballarò e Virus. Sono tutte cose che io, in rappresentanza del Pd, ho detto fin dal primo giorno, quindi, come si vede, in totale trasparenza. Fui io il primo a intervenire pubblicamente decine e decine di volte, a fare interrogazioni in Parlamento. Nessun altro partito si è mai comportato in maniera così trasparente. Tutti i problemi che sono venuti fuori, io li ho denunciati fin da subito. E con l’intervento di ieri in Vigilanza non mi pare che ci sia la volontà di cercare un dialogo e un confronto con il cda: come fa il direttore generale a dire che si augura che il suo piano vada avanti lo stesso, dopo che è stato bocciato?”. Quello di Anzaldi però sembra essere un artificio retorico, per quanto raffinato: Renzi potrà non aver detto nulla pubblicamente su ciò che lo ha indispettito in privato nel corso di questi due anni di governo Campo Dall’Orto – tutta una serie di piccole cose, dalla pubblicazione online degli stipendi oltre i 200 mila euro proprio mentre gli italiani avevano il primo canone in bolletta alle ultime due puntate del Ballarò di Giannini senza un esponente del Pd all’approssimarsi delle amministrative 2016, dalla puntata di Report sull’Unità alla presenza di Andrea Orlando a Che tempo che fa a una settimana dalle primarie del 30 aprile – ma resta il fatto che Giacomelli è legato al braccio destro di Renzi (Lotti) e che Anzaldi è stato il portavoce di Renzi. Difficile dunque dire che l’ex presidente del Consiglio non condividesse nulla dei giudizi, molto duri, che entrambi hanno dato sulla gestione Campo Dall’Orto. E anche Guelfo Guelfi, membro del cda, che pure ha votato sì al piano news lunedì, non ha lesinato critiche al dg. L’ha fatto a modo suo, naturalmente, con garbo, anche perché fra i due c’è un rapporto personale. Campo Dall’Orto, che è uno che parla poco, con lui si confrontava, anche se pare che alla fine non lo ascoltasse molto. “Campo Dall’Orto – ha spiegato Guelfi nell’intervista al Foglio – ha pensato che questo progetto potesse nascere nella riservatezza di alcune stanze al settimo piano della Rai, con una sorta di diffidenza di relazione con il cda”. Insomma, dice Guelfi, “non c’è stata una relazione confidente, di fiducia partecipata, tra noi e il dg. Un elemento che ha covato sotto la cenere e ha portato alle contraddizioni che sono esplose oggi”. La funzione principale, prioritaria, ha aggiunto Guelfi “degli strumenti di governo non è aggravare le contraddizioni ma scioglierle. I contenuti della Rai finora sono stati buoni, i risultati ottimi, ma sono anche convinto della debolezza del processo di direzione dell’azienda. Nessuno si è fidato di nessuno”.

    

“Dobbiamo capire – disse Campo Dall’orto al Foglio – che l’essere efficienti non è un capriccio di un capo azienda ma è una necessità assoluta per chi vuole affermare l’idea che la Rai è qualcosa di diverso rispetto a quella che viene descritta eterodiretta dalla politica e schiava delle raccomandazioni. Efficienza significa emanciparsi dagli errori del passato e il mio mandato ha un senso anche per questo. Le richieste strane e sbagliate sono filtrate da un’idea precisa: un’azienda che premia l’inefficienza è un’azienda dove si possono fare strane richieste; un’azienda che funziona è un’azienda dove alcune cose non possono essere permesse”. Molte altre, invece, sì.

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  • David Allegranti
  • David Allegranti, fiorentino, 1984. Al Foglio si occupa di politica. In redazione dal 2016. È diventato giornalista professionista al Corriere Fiorentino. Ha scritto per Vanity Fair e per Panorama. Ha lavorato in tv, a Gazebo (RaiTre) e La Gabbia (La7). Ha scritto cinque libri: Matteo Renzi, il rottamatore del Pd (2011, Vallecchi), The Boy (2014, Marsilio), Siena Brucia (2015, Laterza), Matteo Le Pen (2016, Fandango), Come si diventa leghisti (2019, Utet). Interista. Premio Ghinetti giovani 2012. Nel 2020 ha vinto il premio Biagio Agnes categoria Under 40. Su Twitter è @davidallegranti.