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Da evento serale a flop anti casta. La triste parabola dei talk italiani

Serena Magro

Vorrebbero essere Samarcanda ma fanno il 2 per cento di share. Quando si è rotto il gioco?

Si sono segregati, isolati, chiusi nella gabbia, sottomessi ai codici di matrix, esiliati nel mercato di Ballarò, irregimentati nella quinta colonna, tutto il giorno lì in piazza, stanno sempre dalla stessa parte vostra, in un eterno e ripetitivo martedì. Non ascoltano, non guardano, ma appunto (talk) parlano. Gli show vanno avanti, rispettano il must, sostenuti solo dalla loro energia interna, come se esistesse (ma forse esiste davvero) una specie di ferreo sindacato autori e conduttori, capace di imporre il proprio lavoro come fine del programma e delle stesse scelte editoriali televisive. E’ il posto fisso, in cui si dicono sempre le stesse cose. Ogni anno i talk-show italiani, a inizio stagione, vengono richiamati (è diventato anche questo un rito ripetitivo) alla necessità di darsi nuove vesti, di tentare nuove strade. E ogni anno viene mostrato il bollettino medico degli ascolti calanti, vicini, per la gran parte di essi, al livello frizionale, quei numeri tra il 2 e il 5 per cento cui, a seconda della forza propria della rete, in sostanza si arriva con qualunque programma, anche non programmando, anche con lo schermo nero (l’interruzione e la conseguente laconica schermata sulle prime fa grandi ascolti perché suscita curiosità). Numeri che si raggiungono con la breve permanenza di ascoltatori che in realtà stanno facendo zapping, se gli gira si fermano un momento, sentono due strilli, un no-euro, un anti-casta, un paio di passaggi a più voci (trii, quartetti, concertati, sul tema di “io non ti ho interrotto”), e se ne vanno. Non resta nulla, anche i rimbalzi successivi sui giornali e nei Tg sono diminuiti. Non c’è più l’evento serale, come avveniva nella fase eroica di inizio anni Novanta. Tutti vorrebbero pesare come Samarcanda, come Milano Italia, ma non ce n’è più.

 

Allora ci fu un incanto, nell’Italia travolta dall’azzeramento della politica proporzionalista e democristiana, si restava la sera a casa per seguire Marina Salamon che discuteva con Ferdinando Adornato. E non stupitevi, le cose hanno sempre una loro logica, specialmente in televisione, dove si può fingere ma non si può barare. Quella magari era una finzione rispetto a ciò che politicamente stava nascendo, e lo si vide con tutti gli eroi da talk-show infilzati poi dagli insuccessi elettorali e dalla vittoria berlusconiana. Ma non era un imbroglio, non stavano barando. Poi la stagione berlusconiana ha dato un po’ di droga a un modello informativo già finito e superato: i talk sono diventati il luogo dell’antiberlusconismo. Roba facile, da editoriale di Massimo Giannini replicabile ogni anno come il calendario di Frate Indovino. Poi si sono cimentati con l’anti-montismo, l’anti-Europa e infine il nulla dell’anti-casta e il baratro dell’anti-politica (grattando, non arrabbiatevi voi appassionati di quei mostri sacri, al fondo del barile di un certo longanesismo-montanellismo tutto fatto di vizi italiani eterni e incorreggibili e quindi stucchevolissimo). Non inventano niente, non impongono mai una loro definizione, una loro parola. Chi timbra e poi esce dall’ufficio è furbetto, e non se ne viene fuori. Chi resta non arriva a fine mese. Le bollette e le tasse, il ladro e al’appalto, i precari e le maestre, e alè.

 

C’è un’anomalia, in Italia siamo zeppi di talk settimanali o bi-settimanali, e gli orari sono tutti un po’ strampalati. Ma il settimanale è da presuntuosi, per reggere bisogna avere davvero qualcosa da dire e da raccontare. Serve lavoro, servono idee (un po’ lo fanno, e infatti funzionano meglio, i programmi di informazione che hanno rinunciato al dibattito in studio e mandano invece in giro i loro inviati). La prima serata poi è da super presuntuosi, con un sicurezza di sé che sfida la stupidità. La norma, l’America insegna, è un programma quotidiano, almeno da lunedì a venerdì, e tranquillamente in seconda serata. Poi servono testi, battute e opinioni, e ospiti che (bontà loro…) vengano a trovarvi.

 

Quando si è rotto il gioco? Salamon e Adornato erano Eva e Adamo prima della nota cacciata avvenuta con la presa d’atto dell’esistenza del berlusconismo. Il castigo/destino fu opposto: non mortalità e conoscenza del bene e del male ma vitaccia garantita e inconoscibilità del mondo a causa di par condicio. Negli anni berlusconiani-prodiani la midiciale regola del tempo pareggiato stese definitivamente ogni barlume di significato e di creatività nei talk-show. Anche fuori dalle campagne elettorali: la regola venne interiorizzata, fatta propria. Con la mistica dei duelli tv (si era ancora nell’epoca del breve bipolarismo italiano) divenne la norma fondante. Un po’ parla uno, un po’ parla l’altro (lo sfortunato Politics è stato l’epitome di questo fenomeno). Il conduttore regge il microfono . Se è furbo ammicca, interrompe al momento inopportuno, fa un po’ di spin con i servizi esterni che scandiscono la serata. Ma ha ormai abdicato. E se un politico di punta viene intervistato da solo allora qualcuno insorge per la ospitata televisiva “senza contraddittorio”. Si certifica che il giornalista diventa un “non contraddittore”, un verbalizzatore. E nessuno nota che c’è qualcosa che non torna. Come se ci si potesse confrontare solo tra politici, una specie di gioco tra pari (quello sì veramente ne fa una casta) che esclude gli altri. Il fuoco passa dalle domande, dal tono stesso di un’intervista, alla scelta di chi invitare. E’ il mondo di Rocco Casalino: io ti mando il tipo caldo del momento e tu me lo tieni al riparo dagli altri ospiti. Il conduttore che magari ha studiato e vorrebbe provare a interloquire rinuncia anche lui e si affida (è più comodo) ai piazzisti. Sentiamo, diamo voce alla piazza. E lì casca sulle indignazioni precotte e sulla sputtanatissima partigianeria a 5 stelle.

 

Che fare? Resiste, ma lui è pre-paradiso, Bruno Vespa. Provate a carpirne i segreti, a partire dal rapporto col potere più complesso di quanto possa sembrare. Ha senso e fa notizia Otto e mezzo, il format ci è caro e continua a sprigionare funzionalità, perché (lasciate perdere le scelte degli ospiti) è centrato sulla conduttrice e non sulla par condicio o sulla piazza. E resiste, lui invece è prima, non aldilà, del bene e del male (come si diceva di P. G.Wodehouse), Maurizio Mannoni. L’idolo del Foglio ci fa trascorrere piacevolmente gli ultimi minuti prima del sonno. Piazzata a fine giornata l’italianizzata nightline non pretende di scoprire cose nuove, ma cerca di squadernare i fatti e di dare un po’ di spazio e di senso alle opinioni, col tono di chi sa di non aver davanti a sé chissà che menti acute. Nessuno strilla nel suo castello di Blandings in cui si discute senza rancore. Anche lui, come Lilli Gruber, ha la forza della cadenza quotidiana. Non è piazzista, proverebbe pure a essere pro-politica, se non si fosse un po’ scocciato.

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