Carlo Conti e Maria De Filippi (foto LaPresse)

Lessico da talent e retorica pallosa a Sanremo. Carlo Conti ha già finito gli aggettivi

Andrea Minuz

La coppia con Maria De Filippi funziona, peccato che manchi lo spettacolo da vedere. Il medley dell'impegno civile italiano si mangia mezza puntata, Crozza non fa ridere e gli ospiti sono meglio dei cantanti in gara.

Per la prima puntata di Sanremo, Carlo Conti ha sfoderato tutto il suo repertorio di aggettivi. Una quarantina di “meraviglioso”, “gigantesco”, “bellissimo” e poi  “perla”, “immenso”, “capolavoro”, “numero uno assoluto”, “numero uno nel mondo”. Capo leggermente reclinato, braccia che si allargano, sorrisetto complice. Bravo, anzi bravissimo nel ruolo che lo ha portato al successo. Un collage meticoloso di modestia e senso comune che intercetta con esattezza le aspettative del suo spettatore. Perché prima di incarnare un formidabile everyday man televisivo, Carlo Conti è il parente di provincia che prende in mano la tombola a Natale, fa ridere tutta la famiglia tranne te, ma ti adegui.



L’incastro con Maria De Filippi funziona. Se non fosse che entrambi lavorano per sottrazione, entrambi fanno leva sulla loro “presenza discreta”. Maria poi, si sa, non conduce per definizione. Quindi, mentre si scansano per farci vedere lo spettacolo ci vorrebbe anche lo spettacolo da vedere. Tiziano Ferro in penombra che fa Tenco era un bell’inizio, anzi perfetto. Lui si allontana, l’orchestra sfuma “Mi sono innamorato di te” e accenna “Vedrai, vedrai”. Un inizio da show all’americana, lentamente risucchiato nel devastante medley dell’impegno civile italiano che si mangia metà puntata e oltre. La parata degli “angeli di Rigopiano”, l’esercito, la guardia di Finanza, i bambini del bullismo, il corpo hackerato di Diletta Leotta in quota Sky, la beneficenza di Raoul Bova in quota etero, Crozza che ci chiede di pagare le tasse, il ricatto del contenuto, “vado al Festival per raccogliere fondi contro la Sla”, come ci informa Ron, mica per vendere due dischi in più.

 

Se Sanremo funziona ancora come rappresentazione dell’italianità è perché incarna il nostro insopprimibile senso di colpa nei confronti dell’entertainment. Non c’è show senza pentimento. Non c’è musica senza dolenza. Non c’è spettacolo senza indignazione sui compensi. Benissimo la standing ovation agli alpini, doveroso l’omaggio alla Croce Rossa, agli “eroi del quotidiano”. Però, il compito dello spettacolo sarebbe anche quello di farli scherzare, alleggerire, raccontarli un po’ come la nostra “Marvel”. Scritta così, la parata di Rigopiano diventa un'apparizione forzata, una lezione di educazione civica, un palloso tributo da pagare al peccato del divertimento. E allora, narcotizzati dal medley dell’impegno civile, ci buttiamo tutti su “La vida loca” di Ricky Martin, “un, dos, tres”, “la morbidita”, “shake your bon bon", “quanto me piace Italia”. Alè. Meglio la parata di chiappe latine dello sberleffo pedagogico di Crozza che ci rimanda in punizione da Floris. Battute fiacche su Renzi, Salvini, la Raggi e tremenda istigazione all’Irpef per risolvere tutti i mali del paese. Peggio di Crozza, solo un imbarazzante Bob Dylan toscano che pare uscito da “Telemaremma”.



Il lessico visivo dei talent si è definitivamente impadronito della regia di Sanremo, col pre-palco à la “X-Factor”, le inquadrature nel backstage, le reazioni a caldo dei cantanti sui social. Su tutti, Al Bano che dice “questa canzone è come una mano guidata dall'alto, da un elemento che si chiama amore”. Però la voce manca, due infarti si sentono. Stecca anche Ron. Fiorella Mannoia parla, ma il testo strappa una citazione di Monsignor Ravasi su Twitter tra Cioran e Kierkegaard. Meglio gli ospiti dei cantanti in gara. Meglio il medley di Cortellesi e Albanese che la metà delle canzoni sentite ieri. Quando arrivano per promuovere il loro film a breve nelle sale, Carlo Conti ha ormai finito gli aggettivi. Ma il genio si vede nell’improvvisazione, e li congeda con un formidabile “il buon cinema italiano, signori!”.