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il foglio del weekend

L'isola dei chip. Perché tutti guardano a Taiwan

Eugenio Cau

I piani della Cina, gli investimenti americani, lo spazio dell’Europa. Indagine su una competizione globale

Senza nemmeno doverci sforzare troppo, potremmo immaginare la competizione globale per i microchip quasi come una favola. “Tanto tempo fa, tutti i guerrieri del mondo erano alla ricerca di un tesoro prezioso e desiderato, che era cercato con smania, perché il guerriero che fosse riuscito a impossessarsene sarebbe stato in grado di dominare sugli altri. Ma quel tesoro poteva essere trovato soltanto su una piccola isola e in nessun’altra parte del mondo, e per questo i guerrieri cercarono di architettare ogni modo per conquistarlo. Alcuni decisero di conquistare il tesoro con la forza bruta, altri con l’ingegno, altri ancora con l’inganno. E il desiderio del tesoro divenne così forte e insaziabile che a un certo punto tra i guerrieri scoppiò una grande guerra per decidere chi avrebbe dominato la piccola isola”.

In questa banale favola il tesoro sono i microchip, che oggi sono preziosi e desiderati principalmente per due ragioni. La prima è che i microchip fanno funzionare il mondo odierno. Sono importanti quanto il petrolio, ma a differenza del petrolio che può essere estratto in varie parti del mondo, sono estremamente difficili da produrre – e questa è la seconda ragione per cui sono così desiderati e ricercati, proprio come un tesoro. L’importanza dei microchip è difficile da sottostimare. Sono i componenti necessari per il funzionamento di praticamente ogni apparecchio elettronico. Sono ovviamente essenziali per computer, smartphone, tablet e tutto ciò che siamo abituati a considerare “elettronica”. Ma la loro diffusione è eccezionalmente più vasta, perché parti elettroniche sono ormai dappertutto.


Sono i componenti necessari per il funzionamento di ogni apparecchio elettronico. Pc e smartphone ma non solo: sono essenziali per le auto


Prendiamo un’automobile, per esempio. I microchip servono per far funzionare i finestrini elettrici, i sensori di parcheggio, il computer di bordo, l’airbag, il sistema di condizionamento automatico, molti sistemi di sicurezza, il telecomando per aprire l’auto, e potremmo andare avanti. Il 40 per cento del costo di ciascuna automobile che viene prodotta nel mondo è ormai composto dall’elettronica, e quando c’è elettronica ci sono i microchip.

Quelli che sono nelle automobili, in realtà, sono chip poco sofisticati e relativamente facili da trovare e produrre, e non sono loro il tesoro che stiamo cercando. Ma i chip servono anche a molto altro: a far funzionare i missili guidati, i carri armati e i sottomarini. Servono a far funzionare le intelligenze artificiali, i sistemi di cloud computing e i computer quantistici che saranno realizzati nei prossimi anni. E più le tecnologie diventano sofisticate e strategiche, più i chip che le rendono possibili diventano preziosi. Il tesoro sono questi ultimi, quelli più sofisticati. E qui arriviamo all’isola che conserva questo tesoro: Taiwan.

A volte è difficile comprendere l’eccezionale importanza che un posto piccolissimo come Taiwan ha per un mercato grandissimo come quello dei microchip. Per capirla, partiamo da come se ne costruisce uno. Semplificando molto, le fasi sono tre. La prima è il design, cioè l’ideazione sulla carta di come il microchip deve essere costruito, quali caratteristiche deve avere, in che modo deve essere performante per adempiere a un certo compito. Questa fase è la più facile, almeno in prospettiva, e non a caso esistono aziende che si occupano di design di microchip un po’ in tutto il mondo, anche se le migliori sono negli Stati Uniti. Le altre due fasi sono la produzione e l’assemblaggio. Concentriamoci sulla produzione, che è la parte più difficile. Per produrre microchip servono infrastrutture enormi, un know-how ricercatissimo e investimenti eccezionali, nell’ordine di decine di miliardi di dollari all’anno. E’ una cosa che pochissimi paesi al mondo riescono a fare, e che ai livelli più alti, quelli dei microchip più sofisticati e importanti, riesce di fatto a un paese solo: Taiwan, appunto.

Possiamo dire che il tesoro che tutti cercano sono i microchip più evoluti, quelli con un livello di miniaturizzazione dai dieci nanometri in avanti (attualmente i più avanzati del mondo hanno un livello di miniaturizzazione di tre nanometri, e presto di due). Su questi microchip, Taiwan ha un dominio praticamente assoluto: il 92 per cento è prodotto sulla piccola isola al largo della Cina. Possiamo poi aggiungere che Taiwan custodisce un tesoro nel tesoro, perché tutto questo eccezionale dominio nella produzione dipende da un’unica azienda, il campione nazionale Tsmc, che oggi è la singola azienda più importante del mondo. Per comprendere la sua enormità nel sistema globale dei microchip, basti pensare che l’azienda taiwanese, da sola, accumula il 60 per cento di tutte le entrate generate dalla vendita di microchip nel mondo, e che ogni anno investe in ricerca e sviluppo oltre 40 miliardi di dollari: è l’equivalente del pil annuale di stati per niente piccoli, come la Serbia o la Tunisia.


Quelli con un livello di miniaturizzazione dai 10 nanometri in avanti sono i più sofisticati: il 92 per cento è prodotto a Taiwan


E voi direte: se qualcun altro vuole costruire microchip come fanno Taiwan e Tsmc, basta che ci metta i soldi e li produca, no? Non è così semplice. Tsmc ha creato il suo dominio a partire dalla fine degli anni Ottanta, mettendo assieme enormi investimenti, ingegno tecnologico e acume negli affari. Ma i tempi sono cambiati rispetto agli anni Ottanta: gli investimenti necessari per avviare la produzione di microchip sono diventati ingenti, e le tecnologie sono così avanzate ed esclusive che anche ad avere a disposizione enormi fondi finanziari non è detto che alla fine sarà possibile avere successo. 

Questo è il contesto della nostra favola: il tesoro e l’isola che lo custodisce. Adesso passiamo ai guerrieri pronti a fare di tutto pur di ottenere il tesoro. Li conoscete già, sono le grandi potenze economiche e militari mondiali: anzitutto Stati Uniti e Cina, che sono di fatto al centro di una nuova Guerra fredda basata sulla competizione per i microchip. E poi, in second’ordine, Unione Europea, Regno Unito, Giappone, Corea del Sud.

Sono tantissimi i modi in cui queste grandi potenze economiche cercano di conquistare il predominio dei microchip di cui ora gode Taiwan. Il più drastico è sicuramente la guerra. Si parla da anni della possibilità che la Cina possa invadere Taiwan, in parte per antiche rivendicazioni politiche che risalgono alla guerra civile tra nazionalisti e comunisti della fine degli anni Quaranta, ma soprattutto per poter acquisire l’eccezionale know-how dell’isola sui microchip, e conquistarsi Tsmc. Per ora questa è un’ipotesi relativamente lontana, e un’invasione di Taiwan da parte della Cina non è ritenuta probabile dalla maggior parte degli analisti, almeno per i prossimi anni (anche perché dal punto di vista militare potrebbe essere molto più impervia di quanto si potrebbe immaginare).


L’invasione cinese a breve non è ritenuta probabile dalla maggior parte degli analisti: potrebbe essere  più impervia di quanto si immagini


Un’altra opzione è sfruttare le alleanze. In questo sono maestri gli Stati Uniti, che soprattutto sotto l’Amministrazione del presidente Joe Biden stanno cercando di convincere tutti i paesi che partecipano alla grande catena di produzione dei microchip di escludere la Cina dai loro affari. Gli Stati Uniti ci provano in parte con la persuasione e in parte con la coercizione: alla fine del 2022 il governo americano ha approvato un’importante legge che di fatto vieta di vendere o di trasferire alla Cina microchip avanzati di produzione americana o prodotti da altri ma che contengano anche soltanto un piccolo componente, un brevetto o una tecnologia di origine americana. E siccome i microchip sono sistemi eccezionalmente complessi, è praticamente impossibile che in almeno un pezzettino non ci sia una parte di tecnologia americana. Di fatto, gli Stati Uniti hanno detto a tutto il mondo che non è possibile commerciare in microchip con la Cina e rimanere amici dell’America al tempo stesso. Taiwan, il Giappone e la Corea del Sud, che sono sinceri alleati degli Stati Uniti ma al tempo stesso fanno un sacco di soldi commerciando in microchip con la Cina, stanno riflettendo sul da farsi.

Ma il metodo più interessante con cui le grandi potenze stanno cercando di conquistare la supremazia sui microchip è fare come Taiwan, e cercare di costruire una propria industria dei microprocessori. Nessuno dei guerrieri che si contendono il tesoro parte da zero. Gli Stati Uniti i microchip gli hanno inventati, e hanno ancora una parte consistente della filiera di realizzazione al loro interno, anche se manca la parte più importante, quella della produzione. La Cina ha trascorso decenni, anche con un aiutino dello spionaggio industriale, a cercare di colmare il divario tecnologico con gli altri paesi, e oggi è già in grado di produrre su larga scala i microchip meno sofisticati, ma non quelli più importanti e strategici. In Corea del Sud Samsung ha le capacità per produrne di evoluti, ma arranca enormemente rispetto alla taiwanese Tsmc. Perfino l’Unione europea ha un inaspettato vantaggio: nei Paesi Bassi si trova Asml, che è l’unica azienda al mondo capace di produrre i macchinari che a loro volta servono per produrre i microchip più avanzati. Senza Asml, non li può costruire nessuno.

Così, nell’ultimo anno, praticamente tutte le potenze economiche del mondo hanno annunciato enormi piani per favorire la crescita di un’industria autoctona dei microchip. Questo grande processo si chiama “onshoring” ed è l’esatto contrario del grande movimento di globalizzazione che aveva coinvolto il mondo negli scorsi decenni: dopo la fine della Guerra fredda, l’impulso era stato di liberare le industrie nazionali e di consentire agli imprenditori di cercare fortuna ovunque volessero, portando con sé le loro produzioni e i loro talenti: la ricchezza del mondo era ricchezza di tutti, bastava produrne in abbondanza. Adesso succede il contrario: ciascun paese vuole produrre da sé e per sé, esattamente come si faceva prima della globalizzazione – almeno quando si parla di microchip.


Il vantaggio europeo: nei Paesi Bassi c’è l’unica azienda capace di produrre i macchinari che a loro volta servono per produrre i chip più avanzati


Il piano americano, il cosiddetto Chips Act di Joe Biden approvato ad agosto, vale 280 miliardi di dollari e prevede aiuti industriali per 52 miliardi di dollari. Sono tantissimi solo all’apparenza (abbiamo visto che gli investimenti nel settore devono essere di decine di miliardi ogni singolo anno, non una tantum), ma sono stati abbastanza per fare arrabbiare l’Unione europea, che ha protestato contro gli Stati Uniti per aiuti di stato indebiti. L’Unione europea ha proposto misure di sostegno per l’industria autoctona dei microchip che valgono sulla carta 43 miliardi di euro, ma che sono composti da appena 11 miliardi di sostegni diretti da parte dell’Unione: il resto dovrebbe arrivare dai privati. Molto meglio ha fatto la Cina, che ha promesso aiuti di stato per 143 miliardi di dollari. Il Regno Unito, nel suo piccolo, dovrebbe presentare un piano di aiuti economici all’industria locale dei microchip a breve. Ma appunto, i soldi non fanno da soli questa industria.

E’ a questo punto, probabilmente, che inizierà il vero conflitto per la conquista del tesoro, e in parte è già iniziato. Sarà fatto di dazi, sanzioni, divieti commerciali, spionaggio industriale, tentativi di corruzione, furti di proprietà intellettuale, doppi giochi e tradimenti. Forse ci sarà anche una guerra vera, per Taiwan, se i contendenti non saranno in grado di limitare la propria ambizione.

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.