Foto Cecilia Fabiano/ LaPresse

Lamentazioni populiste su Amazon

Carlo Alberto Carnevale Maffè

Lo sciopero come guerra di religione. Perché le accuse di concorrenza sleale, uso illegittimo dei dati, fiscalità opaca sono contraddittorie. Lo sfruttamento del lavoro, un nodo a cui vanno date altre soluzioni

Il grande fiume di Amazon esonda spesso in ampie paludi populiste. L’onda di risacca ideologica contro il gigante dell’e-commerce e dei servizi digitali è stata indotta dal suo stesso straripante successo. L’ultimo caso è quello di uno sciopero che ha fornito l’occasione per trasformare una normale e legittima vertenza aziendale in una specie di guerra di religione contro le odiate multinazionali; a furor di popolo, molti esponenti di diversi partiti si sono affrettati a cavalcare il fenomeno per acquisire un po’ di visibilità. Al di là dell’opportunismo politico di alcuni, il fenomeno merita di essere discusso, perché rivela da una parte l’incapacità di comprendere e gestire l’innovazione, dall’altra un comprensibile disagio di chi si trova spiazzato dall’accelerazione del mercato, specie con gli impatti della pandemia.

 

Si possono individuare diversi tipi di argomenti populisti contro Amazon: dalla concorrenza sleale verso i canali di vendita tradizionali all’uso illegittimo dei dati, dalla fiscalità opaca allo sfruttamento del lavoro. I primi tre filoni di lamentazioni sono contraddittori, se non addirittura frutto di malcelati pregiudizi; l’ultimo invece è più fondato nel merito, ma non nelle soluzioni proposte.

 

Chi attacca Amazon sostenendo che distrugge i piccoli negozi sbaglia bersaglio, perché a essere spiazzati dall’e-commerce sono i retailer medio-grandi, mentre il commercio di prossimità resiste; le botteghe più specializzate possono addirittura imparare a sfruttare i nuovi canali digitali, specie quando trovano nicchie di differenziazione competitiva. E’ ciò  che è accaduto a circa 15 mila piccoli produttori, commercianti e artigiani italiani che proprio grazie ad Amazon hanno avuto accesso a mercati globali per loro irraggiungibili fino a pochi anni fa e che con l’e-commerce hanno potuto contare su una parziale compensazione di fatturato a fronte di un anno di chiusure forzate dall’emergenza sanitaria.

 

Sull’uso dei dati, a fronte del fatto che il rispetto delle norme sulla tutela delle informazioni personali è formalmente garantito molto più da Amazon che dal negozietto sotto casa, la polemica populista si scaglia spesso contro la profilazione chirurgica delle abitudini d’acquisto, che pure si basa sul consenso informato dei singoli clienti. Ma esattamente, quanto “informato”? Chi lancia polemiche pseudo legali contro Amazon è di solito tra i fautori di sempre maggiore regolamentazione sui temi di privacy, con l’effetto paradossale di imporre termini d’uso lunghi decine di pagine, talmente illeggibili da risultare inutili a proteggere gli stessi consumatori. Questi ultimi, peraltro, alla prima offerta speciale, non sembrano farsi troppe remore nello sfruttare i benefici di tale profilazione.

 

L’argomento fiscale è invece quasi sempre frutto di mancata comprensione delle norme internazionali o di pregiudizio ideologico verso i giganti digitali; ciò è vero in particolare per Amazon, che – al contrario di altri player tecnologici globali – paga localmente oneri fiscali e previdenziali per quasi 10 mila posti di lavoro, avendone generati circa il triplo nell’indotto. Vero è che il prelievo fiscale sui servizi digitali (come quelli di Amazon Web Services, la divisione più profittevole del gruppo di Jeff Bezos) incide principalmente laddove si trova la reale fonte di valore aggiunto e cioè non necessariamente in Italia; ma il Bel paese certo non eccelle nell’attirare talenti e infrastrutture tecnologiche, e anzi vota in massa per un ceto politico neoluddista che ha passato decenni a respingerle come una minaccia allo status quo. Qui si vede il paradosso dei talebani del fisco digitale: da un lato si lamentano che non c’è valore aggiunto locale e pretenderebbero di imporre dazi direttamente sui fatturati, facendoli ovviamente ricadere sui consumatori; dall’altro, con le loro minacce di vendetta fiscale, allontanano investimenti e talenti, ottenendo così una perfetta eterogenesi dei fini.

 

L’argomento sul lavoro è più complesso. Una buona parte dei lavoratori di Amazon sono white collars, impegnati in attività di tecnologia, organizzazione, relazioni con clienti e merchant e analisi dei dati. Sono ruoli di elevatissima professionalità, molto sfidanti ma insieme anche molto premianti per chi sa riconoscere in Amazon una nave scuola globale dell’innovazione nei servizi. Poi ci sono logistica, movimentazione di magazzino, consegna a domicilio: sono il necessario complemento del modello organizzativo di Amazon, e sono un mestiere duro, fisico, ripetitivo, defatigante. La quota di blue collars impegnati in attività logistiche ad alta stagionalità e non facilmente scalabili è ovviamente crescente al crescere dei volumi, e particolarmente esposta a stress sui carichi di lavoro proprio per soddisfare i picchi della domanda. La stessa magistrale efficienza nei tempi di consegna, che milioni di clienti apprezzano e per la quale continuano a scegliere i servizi di Amazon, è il risultato di un’organizzazione del lavoro ferrea e spesso inflessibile. Ben pagata – almeno così sostiene l’azienda – e con stipendi, formazione e servizi di welfare accessorio superiori a quelli del settore di riferimento, ma pur sempre tayloristica e severa. La cura corretta è tuttavia la robotizzazione e l’automazione spinta, non certo la frammentazione organizzativa con il ricorso spregiudicato a forme pseudo cooperative e a lavoro informale.

 

Mentre una sana dialettica sindacale è indice di normali relazioni industriali, le critiche ideologiche alla multinazionale cattiva e sfruttatrice non fanno altro che accelerare la inevitabile sostituzione del lavoro umano con il capitale tecnologico. Oppure implicano il messaggio che il necessario lavoro della logistica “sporca”, se delegato a un’anonima cooperativa, magari di immigrati, risulta meno scandaloso di quello fatto dai dipendenti di Amazon. Occhio non vede brand, cuore populista non duole, o comunque duole meno.

 

Il consiglio – non richiesto – ai populisti è quello di risciacquare i propri panni ideologici nel Rio delle Amazzoni. Un bagno di realismo serve a stare alla larga da polemiche infondate, che non ottengono miglior risultato se non quello di respingere ulteriormente investimenti e innovazione, e può far imparare a nuotare in una corrente che, se non può essere fermata, si può almeno indirizzare verso maggiore trasparenza, responsabilità e sostenibilità.

 

 

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