TikTok vuole risolvere il problema della cinesità diventando un po' meno cinese

Eugenio Cau

Selezione dei contenuti e rebranding le nuove ricette, scrive il Wall Street Journal

Milano. TikTok è il social network più eccitante del momento. È quello che cresce di più in assoluto, è popolarissimo tra i teenager, segmento demografico ambito e difficile, è entrato nella cultura di massa. Avete presente “ok boomer”? È nato su TikTok. Perfino Mark Zuckerberg, il potente ceo di Facebook, è terrorizzato dalla sua popolarità. Questa trafila di successi ha un solo, gigantesco problema: TikTok è una app cinese. Questo non è un peccato di per sé, anzi: buona parte delle eccellenti idee che contribuiscono al successo di TikTok vengono dall’ipercompetitivo mercato dei social network cinesi. Il problema arriva, tuttavia, quando alle logiche del mercato si aggiungono quelle della sicurezza e della privacy. La compagnia madre di TikTok, Bytedance, è un’azienda di Pechino che nasce e si sviluppa nel contesto di internet in Cina. Questo significa: censura politica, limitazione della libertà d’espressione, sudditanza nei confronti delle richieste del Partito comunista cinese. Nel corso degli anni, Bytedance ha fornito informazioni e identità dei suoi utenti cinesi sotto indagine quando richiesto in via ufficiale dalle autorità locali, censura in maniera sistematica tutti i contenuti politicamente sensibili o sgraditi al Partito, consente allo stato cinese di usare gratuitamente la sua piattaforma per promuovere eventi pubblici – insomma, fa ciò che di norma fanno tutte le compagnie di internet cinesi, che dipendono dall’autorizzazione di Pechino per continuare a operare.

 

Da quando TikTok è diventato molto popolare anche in occidente, analisti e ricercatori hanno cominciato a chiedersi: le regole censorie e liberticide che valgono per TikTok in Cina (la app in Cina si chiama Douyin) valgono anche per TikTok in occidente? L’azienda è sempre stata molto chiara nel dire: assolutamente no. TikTok ci tiene molto a rendere chiaro che con Bytedance c’è una separazione precisa, e che i dati degli utenti in occidente non sono conservati in Cina, ma negli Stati Uniti e a Singapore. Il sospetto tuttavia è rimasto così forte che a inizio novembre negli Stati Uniti TikTok è finito sotto inchiesta da parte del Cfius, il Comitato per gli investimenti esteri, che ha il potere di ordinare a TikTok di vendere il suo business in America. La percezione di insicurezza non è limitata agli Stati Uniti. In India, per esempio, TikTok è stato bandito per qualche settimana per ragioni di sicurezza pubblica, per poi essere riammesso sul mercato con un certo sospetto.

 

Ieri il Wall Street Journal ha pubblicato un articolo molto informato in cui alcune fonti vicine all’azienda rivelano la nuova strategia di TikTok in occidente: se il problema è la cinesità, basta essere un po' meno cinesi. Secondo il Wsj, TikTok ridurrà la quantità di contenuti cinesi dai feed degli utenti occidentali, per evitare di ricordare loro in continuazione l’origine della app. Inoltre, TikTok sta pensando a operazioni di rebranding negli Stati Uniti e potrebbe perfino aprire un quartier generale a Singapore per evitare l’impressione di essere un’azienda pechinese. Parlando con il Wsj, Bytedance ha smentito sia il rebranding sia lo spostamento del quartier generale, ma il semplice fatto che fonti interne all’azienda ne abbiano parlato apertamente indica quanto è grande e complesso il problema della cinesità.

 

Questo problema si porta con sé il clima di sfiducia crescente tra l’occidente e la Cina, ed è un fallimento per il governo di Pechino, che ancora non riesce a fare del made in China un marchio prestigioso. È anche un gran problema per le aziende, non soltanto TikTok, che si sentono schiacciate tra la fedeltà al regime cinese e le preoccupazioni occidentali. Due giorni fa Alex Zhu, il capo di TikTok, ha rilasciato al New York Times la sua prima intervista da quando ha assunto l’incarico. L’intervistatore gli ha chiesto cosa farebbe se Xi Jinping gli chiedesse di consegnare allo stato cinese i dati degli utenti, e lui ha detto: “Rifiuterei”. È una domanda a cui nessun manager privato dovrebbe avere necessità di rispondere, perché la libertà d’impresa da noi è data per scontata. Non è così in Cina, ed è questo, non il rebranding, il vero problema della cinesità.

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.