Una bambola troll raffigurante Donald Trump (LaPresse)

Drenare la fogna online

Eugenio Cau

Le proposte di abolire l’anonimato su internet non sono centrate, ma c’è un gran lavoro da fare contro troll e odiatori

Milano. Chi si occupa delle cose di internet considera il dibattito sull’anonimato online come già chiuso. In maniera quasi unanime, gli esperti sostengono una tesi più o meno simile a questa: qualunque beneficio possa derivare dall’eliminazione dell’anonimato online sarebbe sopravanzato dalle violazioni dei diritti umani e dei princìpi democratici che questa eliminazione comporterebbe. Gli esperti ne hanno dibattuto a lungo, ed è per questo, probabilmente, che la proposta di Luigi Marattin, deputato di Italia Viva, è stata accolta su Twitter con tanta stizza. Ma oltre alle proposte e alla stizza c’è un tema grande, su cui non si può fare a meno di continuare a discutere.

 

Luigi Marattin: “Al lavoro per una legge che obblighi chiunque apra un profilo social a farlo con un valido documento d’identità”

La storia, per chi se la fosse persa: martedì mattina il regista Gabriele Muccino scrive questo tweet: “Subito, al più presto, occorre una legge che obblighi chiunque apra un account social a registrarlo solo tramite l’invio di un documento di identità. Sapremo solo così chi si nasconde dietro la rete commettendo reati penali sotto l’impunità dell’anonimato”. Muccino riprende dichiarazioni fatte domenica a “Che tempo che fa” dalla cantante Emma Marrone, che è stata oggetto di bullismo terribile sui social network e che alla trasmissione di Fabio Fazio aveva invocato una “certificazione” di tutti gli utenti dei social network, con nome, cognome e documenti.

 

Poco dopo Luigi Marattin ritwitta Muccino e scrive: “Io penso abbia ragione, e lavorerò in Parlamento per questo. Chi mi aiuta?”. In un tweet successivo aggiunge: “Da oggi al lavoro per una legge che obblighi chiunque apra un profilo social a farlo con un valido documento d’identità. Poi prendi il nickname che vuoi (perché è giusto preservare quella scelta) ma il profilo lo apri solo così”. A quel punto si apre la polemica, con esperti, ricercatori di internet e giornalisti piuttosto adirati che fanno notare a Marattin che l’idea di identificare tutti gli utilizzatori dei social network è molto problematica e probabilmente non risolverebbe il problema dell’odio online, dei troll e della violenza verbale e psicologica in cui è immerso internet. 

 

La Dichiarazione dei diritti di internet definisce l’anonimato come un diritto. Non serve soltanto ai troll, serve anche ai dissidenti

Prima osservazione: i difensori dell’anonimato online hanno ragione. Questo articolo nasce per spiegare il perché. E tuttavia, prima di cominciare, serve una seconda osservazione: dal punto di vista della ricerca sul tema la questione sarà anche chiusa, ma non lo è per chi la deve affrontare tutti i giorni. Marattin, da politico, cerca di rispondere a un problema serio, e cioè che l’odio online provoca dolore e violenza quotidiani, mentre la disinformazione sui social network si sta trasformando in un virus per le nostre democrazie. Emma Marrone ha dovuto subìre sofferenze inutili a causa di qualche manipolo di farabutti digitali, e lo stesso succede per milioni di persone che non hanno la stessa visibilità. La senatrice a vita Liliana Segre, sopravvissuta ad Auschwitz, ha detto lunedì che riceve circa 200 insulti razzisti ogni singolo giorno via internet. Aggiungiamo il bullismo, le minacce di violenza, il “revenge porn”, la diffusione della misinformazione politica e il quadro diventa nero. Smantellare l’anonimato online ha dunque come obiettivo quello della responsabilizzazione. L’idea è che se i troll sono costretti a metterci la faccia e non possono più nascondersi dietro a nickname e false identità, se diventa più facile individuarli e trovarli, allora i lupi da tastiera si trasformeranno in agnelli. Se entro in un ristorante e comincio a insultare un cameriere, quello chiama i carabinieri che mi prendono e mi costringono a identificarmi. Perché non può succedere lo stesso online? Inoltre l’anonimato, sostengono i suoi abolizionisti, è un volano anche per la misinformazione. Troppo spesso sui social network è successo che l’opinione pubblica si sia lasciata manipolare da account e pagine più o meno anonimi e legati ad agenti malevoli, dai troll russi ai ragazzini macedoni che cercano di lucrare sulla polarizzazione politica. “Perché non applicare ai social network gli stessi princìpi che già valgono per la carta stampata?”, dice Marattin al Foglio, che controbatte a chi lo accusa di voler “schedare” gli utenti dei social. Dice che esistono già piattaforme che consentono l’identificazione digitale, come Spid, e che nessuno invoca le schedature illiberali quando si parla di unificare i database fiscali in nome della lotta all’evasione, a volte perfino lasciando la privacy in secondo piano. “E’ falso dire che adesso chi commette reati online è già perseguibile”, aggiunge. Gli utenti che commettono reati già adesso sono rintracciabili mediante gli indirizzi IP, ma “l’identificazione è difficoltosa, spesso impossibile, e chi l’ha provato sulla propria pelle sa quanto è difficile ottenere giustizia dai reati online”.

 

E dunque il dibattito c’è, e il problema è enorme. Ma ci sono molte ragioni per cui identificare tutti gli utilizzatori dei social network con nome, cognome e documento d’identità non è la soluzione adatta. Ecco perché.

 

1. L’anonimato è un diritto

Nella Dichiarazione dei diritti di internet, all’articolo 10 leggiamo: “Ogni persona può accedere alla rete e comunicare elettronicamente usando strumenti anche di natura tecnica che proteggano l’anonimato”. Sembra un controsenso. Perché proteggere i troll? In realtà, molto spesso, l’anonimato su internet non protegge soltanto i troll. Protegge i dissidenti politici che vivono sotto governi autoritari, e garantisce loro la libertà d’espressione. Protegge anche chi dalle dittature è fuggito: molti dissidenti continuano a mantenere l’anonimato anche dopo essere scappati dalle persecuzioni perché spesso le dittature continuano a cercarli, o perché potrebbero mettere in pericolo dei parenti rimasti in patria. Se anche ai dissidenti fosse consentito di mantenere un nickname, dover consegnare un documento per usare i social renderebbe più facile scoprirli (vedi punto tre). Si dirà: questo è un problema delle dittature, l’Italia è una democrazia. Vero, ma anche da noi esistono categorie protette. Mettiamo che un ragazzo gay voglia iscriversi a Grindr, un social network di incontri per omosessuali. Costringerlo, implicitamente, a rivelare la propria identità sessuale allo stato sarebbe molto poco liberale.

 

2. L’anonimato è solo una piccola parte del problema

Chiunque sia stato bersagliato da troll online, sa che spesso l’anonimato non è un prerequisito della violenza. Spesso i commenti peggiori, specie su Facebook, arrivano da utenti che non si fanno problemi a usare nome, cognome e fotografia, e non hanno remore ad auspicare stupri, decapitazioni, roghi in piazza, genocidi. L’anonimato è solo una parte di quel grande problema che è la deresponsabilizzazione causata da internet, che a sua volta è solo una parte di quel grande problema storico che è il rapporto tra i popoli e i nuovi media di massa.

 

3. C’è una gigantesca questione di dati

Poniamo tuttavia che a un certo punto si decida di riscrivere il contratto sociale e che la sicurezza e il diritto alla verità diventino agli occhi della maggioranza dei cittadini più importanti della libertà d’espressione. Si procederà dunque a raccogliere prova di tutte le identità di tutti gli utenti dei social network. Problema: chi gestisce tutti questi dati? Potrebbero farlo i social network, che tuttavia sono spesso fuori dalla giurisdizione italiana. Ma se l’idea è quella di rendere più facile l’identificazione di chi commette reati online allora è più probabile che lo faccia lo stato. Bisogna quindi immaginare che in un qualche palazzo romano si costruirà un grosso data center in cui le identità di tutti i cittadini sono collegate ai loro profili social. Posto che si riesca a realizzare una struttura simile (vedi punto quattro) e posto che l’opinione pubblica sia favorevole all’idea che oltre ai social network anche lo stato si metta a tracciare i comportamenti online, è probabile che questo data center diventi la più facile preda al mondo per hacker e malintenzionati digitali, e un pasto succulento per agenti statali che cercano identità da rubare o vogliono sapere il vero nome dei loro oppositori online. Potremo cercare di proteggere i server, ma la storia ci insegna che nessun sistema informatico è mai completamente al sicuro. Se gli hacker vogliono entrare, prima o poi gli hacker entrano, e avere tutti i propri gioielli conservati in un’unica cassaforte non è mai una strategia saggia.

 

4. Tecnicamente, è un lavoraccio

Creare il grande database delle identità social di cui si è parlato sopra è quasi impossibile: come si definisce cos’è un social network? WhatsApp lo è? E chi tiene aggiornato il database? Come si verificano i documenti? Chi si assicura che i nickname non cambino? Ma soprattutto: come far convivere un’iniziativa di livello nazionale con un’infrastruttura globale come internet? Saranno soltanto gli utenti italiani a dover registrare i propri documenti? Oppure saranno gli utenti che pubblicano contenuti social dall’Italia, o in italiano? E come gestire chi utilizza strumenti per mascherare la propria provenienza, come le Vpn e Tor? Rendiamo illegali le Vpn?

 

5. Ci sono altri modi

Come dicevamo, anche se l’idea di abolire l’anonimato online non è pienamente a fuoco, la battaglia contro chi rende internet una fogna (anche servendosi dell’anonimato) è sacrosanta. L’intuizione di Marattin (che, per inciso, non è il primo a fare proposte simili, ci sono già disegni di legge di tenore equiparabile depositati in Parlamento) di inserire nel mondo digitale alcune garanzie del mondo reale è giusta, e ci sono metodi per cercare di realizzarla. Per esempio, bisogna eliminare le asimmetrie che troppo spesso vedono i magistrati italiani combattere contro giganti apolidi e irraggiungibili come Facebook e Google. Bisogna iniettare responsabilità in Big Tech anche per quanto riguarda la gestione della misinformazione. Bisogna fare più chiarezza legislativa sui reati digitali, come il cyberbullismo e il revenge porn. Bisogna evitare di perpetuare l’idea che i social siano luoghi “di scarsa credibilità” e dunque “non idonei ad offendere”, come ha da poco deciso la procura di Roma su un caso di diffamazione online che riguarda Chiara Ferragni, come a dire: se lo scrivi su Facebook allora non è grave. C’è tutta una cultura da cambiare, ben venga il dibattito.

  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.