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Ascesa e declino della scuola digitale

Le promesse dell'educazione tech si sono appannate. Riflessioni su un modello in crisi, mentre la Silicon Valley scopre inchiostro e quaderni

L’ultradecennale dibattito sul rapporto fra educazione e tecnologia (intesa nel senso digitale: anche la matita è tecnologia) può essere sommariamente diviso in tre fasi. Prima fase: entusiasmo indiscriminato. Riempire le classi e le vite dei bambini di schermi, cloud e di qualunque strumentazione che verrà, li renderà più adeguati ai tempi e più performanti. Senza contare gli effetti rivoluzionari che questo produrrà nelle scuole pubbliche più svantaggiate, nelle aree disagiate ecc. In questa fase si teorizza la naturale convergenza tra i benefici cognitivi soggettivi, il progresso sociale e i profitti delle grandi aziende tecnologiche. La seconda fase è quella del moderato scetticismo. Alcuni esperti, soprattutto nella Silicon Valley, iniziano a dubitare che l’esposizione alla tecnologia e l’uso sbrigliato dello screen time sia un buon affare per un equilibrato sviluppo delle menti più giovani. Emergono, in questa fase, scuole d’elite con bassissimo uso di strumenti digitali, popolate soprattutto dai figli degli ingegneri che sviluppano e commercializzano quegli stessi strumenti. Sanno cosa producono e decidono di non darne ai loro figli. In questa fase, tuttavia, rimane intatta l’idea che le scuole altamente digitalizzate generino performance migliori degli studenti nei test standardizzati. L’idea è: forse la tecnologia non è un toccasana per l’educazione, ma trasmette competenze e sviluppa le capacità cognitive sulla base delle quali gli alunni vengono valutati. La terza fase è quella in cui anche quest’ultima certezza viene messa in discussione, cosa che getta un’ombra sui pluriennali investimenti miliardari delle scuole di tutto il mondo su prodotti che hanno fatto la fortuna di molte aziende che diffondono il verbo della tecno-educazione, a cominciare da Google, che controlla il 60 per cento del mercato americano in materia. E’ un momento di riflusso dopo gli anni dell’entusiasmo. Partiamo dalla terza fase.

 

Di recente il Wall Street Journal ha raccontato il caso della contea di Baltimore, nel Maryland, che cinque anni fa ha iniziato un’opera di digitalizzazione intensiva del distretto scolastico, che conta 115 mila studenti. Le scuole pubbliche della contea hanno eliminato i libri di testo dalla prima elementare alla fine della scuola superiore, gli insegnanti scoraggiano l’uso di penne e quaderni e il sistema è ben avviato verso l’obiettivo di garantire la presenza a scuola di un computer portatile per ogni studente. I punteggi nei test dell’ultimo anno mostrano un peggioramento: il 37 per cento degli studenti ha raggiunto una valutazione positiva nella lingua inglese, contro il 44 per cento della media nazionale; in matematica la percentuale è appena del 27 per cento, contro la media nazionale del 33. I risultati non solo non sono incoraggianti, ma hanno generato una massiccia protesta dei genitori, che chiedono ai responsabili del distretto di invertire la tendenza della digitalizzazione. A malincuore, gli amministratori hanno fatto alcune concessioni ai genitori arrabbiati, garantendo che ridurranno il numero di computer nelle prime e seconde elementari, portandoli a un rapporto di uno su cinque. La confinante contea di Montgomery, una delle più agiate degli Stati Uniti, ha proposto da quest’anno scolastico un “nuovo” curriculum basato su scrittura a penna, quaderni, libri cartacei e radicale decurtazione dello screen time. Altri casi, dall’Indiana alla Virginia fino al Texas, mostrano simili richieste di una controrivoluzione digitale. L’aspetto interessante di questa terza fase è che non getta uno sguardo negativo sulla digitalizzazione in quanto mezzo utile per avventurarsi in quella faccenda complessa, sterminata e perfino misteriosa che è l’educazione; il sospetto è molto più limitato: si sostiene che la presenza massiccia della tecnologia non dia benefici misurabili nemmeno nell’ambito limitato di competenze specifiche come lettoscrittura e matematica, che sono i pilastri delle valutazioni standard. Tracciare correlazioni e rapporti di causalità dimostrabili fra la presenza della tecnologia e le performance scolastiche non è facile: il terreno statistico è scivoloso, gli esperimenti molto diversi fra loro e l’arco temporale a disposizione relativamente breve. Ma diverse istituzioni che monitorano i sistemi educativi lanciano segnali di perplessità. Il National Education Policy Center, centro di ricerca dell’università del Colorado, ha notato che l’accelerazione tecnologica a scuola “si basa su assunti educativi discutibili, pressioni interessate dell’industria tecnologica, serie minacce alla privacy degli studenti e mancanza di sostegno della ricerca”. Anche un report della Rand Corporation denuncia la mancanza di dati sistematici che permettano di stabilire l’efficacia dei modelli.


Le tre fasi del rapporto fra tecnologia ed educazione: entusiasmo indiscriminato, scetticismo selettivo e moti controrivoluzionari 


Queste incertezze non hanno fermato la diffusione dei device nelle scuole americane. Uno studio del 2018 del Consortium for School Networking dice che il 59 per cento delle scuole superiori americane è dotato di device personali per l’apprendimento, in crescita del 6 per cento rispetto all’anno precedente. Alle medie la percentuale è al 63, mentre nelle scuole elementari si viaggia attorno al 30 per cento.

 

La necessità di incrementare la digitalizzazione scolastica è una delle poche linee di continuità fra l’Amministrazione Obama e quella di Donald Trump. Otto anni fa Obama aveva esposto la visione di una scuola interamente digitalizzata, e il suo governo ha messo a punto una strategia in cinque anni, perseguita con solerzia anche dalla segretaria per l’educazione della seguente amministrazione, Betsy DeVos, una entusiasta della digitalizzazione scolastica. Gli Stati Uniti hanno messo in atto un piano tecnologico particolarmente aggressivo, basti pensare che 180 distretti scolastici sopperiscono alla carenza di insegnanti trasmettendo lezioni a distanza – alcune da seguire in classe, altre a casa sui tablet messi a disposizione dalla scuola – e che in certi casi Google ha installato la Wi-Fi anche negli school bus per permettere agli studenti con tempi di spostamento particolarmente lunghi di fare i compiti ed esercitarsi lungo il tragitto; ma di fatto hanno fissato lo standard che molti altri paesi stanno seguendo, fra questi l’Italia, con il Piano Nazionale per la Scuola Digitale, un “pilastro fondamentale de La Buona Scuola” che anche il ministro Lorenzo Fioramonti sta portando avanti con convinzione.


Gli “abolizionisti” dello screen time per i bambini dicono che un tratto della tecnologia è quello di illuderci di essere in grado di controllarla 


L’ondata di paesi che in ritardo seguono i passi degli americani ha generato una situazione ironica in cui i gregari lavorano con entusiasmo a un progetto su cui i capofila ora nutrono diversi dubbi. Mentre dalle nostre parti si assumono “pionieri di una digitalizzazione utile e consapevole”, come ha detto Fioramonti, nella Silicon Valley rivalutano inchiostro e quaderni. La radice dei dubbi americani va ricercata nella fase due, quella in cui un’avanguardia di fautori dell’educazione digitalizzata ha avuto una resipiscenza, avviando un ripensamento non solo sul rapporto tra tecnologia e risultati dei test ma sugli effetti educativi generali dell’esposizione agli schermi e della connessione permanente. La lista dei manager dei colossi tech che impongono una dieta tecnologica rigidissima ai propri figli è lunga, e si è affermato un consenso negativo tra gli esperti che hanno preso a studiare gli effetti della tecnologia quando di mezzo c’erano i loro figli. Si sa che Bill e Melinda Gates non hanno dato i cellulari ai loro bambini fino alle scuole superiori, Steve Jobs teneva i suoi alla larga dall’iPad e Tim Cook non vuole che suo nipote si iscriva ai social network, ma nell’ambiente tech si parla di una corrente ormai maggioritaria di “abolizionisti” dello schermo.

 

Un caso esemplare è quello di una ex executive di Facebook di nome Athena Chavarria, che ora lavora nella fondazione filantropica della famiglia Zuckerberg. Ha detto: “Sono convinta che il diavolo viva nei nostri telefoni e stia devastando i nostri ragazzi”. I suoi figli non hanno avuto uno smartphone fino alle scuole superiori e anche quando lo hanno ottenuto il loro uso è severamente limitato, tanto in termini di tempo davanti allo schermo che di contenuti a cui possono accedere. Per l’ex direttore di Wired, Chris Anderson, l’osservazione sugli effetti della tecnologia sui suoi cinque figli è stata una specie di rivelazione che lo ha portato a rimettere in discussione l’entusiasmo tecnologico che aveva coltivato per tutta la carriera. Nella sua casa ora vigono regole piuttosto severe (tra queste: niente telefono fino alle scuole superiori, screen time limitato, Wi-Fi disponibile soltanto in certe fasce orarie, divieto totale dell’iPad) e assieme alla moglie ha scelto scuole in linea con questa impostazione austera. Il problema, ha dichiarato Anderson, è che “credevamo di poter controllare” questo fenomeno, che invece “è oltre la nostra capacità di controllo”. La tecnologia “va dritta ai centri di piacere dei cervelli che si stanno sviluppano, e le normali capacità di un genitore non sono in grado di capirlo”.


La scuola digitale non porta i risultati sperati nemmeno nei test. Inseguire il modello americano mentre gli americani fanno marcia indietro 


In altri termini, Anderson e i fautori di una simile impostazione sono arrivati a una duplice conclusione. Primo, i mezzi tecnologici non sono neutri, idea sulla quale è facile concordare a parole ma che è molto più complicato applicare nella pratica, dove la filosofia negativa del “che male c’è?” e del “perché no?” tende a diventare l’atteggiamento di default. La seconda conclusione è che un tratto fondante della tecnologia digitale è la sua capacità di eludere la nostra abilità di renderci conto dei suoi effetti reali. Non solo ci sfugge di mano, ma anche mentre ci sfugge rimaniamo fermamente convinti di averla sotto controllo. Gli oggettivi benefici sulle competenze, sull’accrescimento delle skills, sui risultati nei test scolastici dovevano essere la prova che se anche un diavolo viveva nei device dei nostri figli, era accompagnato da un angelo che vegliava sulle performance dalle quali dipendono l’ammissione all’università, la mobilità sociale, le prospettive di carriera, il successo. Ora i dati vacillano anche su quel fronte.