Federico Faggin con uno dei primi pc Ibm. Nel 2010 ha ricevuto da Barack Obama la National Medal for Technology and Innovation

Federico Faggin, la Silicon Valley c'est moi

Michele Masneri

Un italiano in America: il genio ribelle che ha inventato microchip e touchpad

Il guru della Silicon Valley sembra più un commendatore che uno startupper. Il guru della Silicon Valley non è uno di questi ragazzini brufolosi che hanno fatto i fantastilioni negli ultimi dieci anni bensì un tranquillo signore vicentino: si chiama Federico Faggin, è del 1941, e ha inventato un paio di cose che tutti usiamo quotidianamente, il moderno microprocessore e il touchpad. Faggin è autobiografia della Silicon Valley, e adesso l’ha pure scritta. Si chiama “Silicio” (Mondadori) e la presenta per la prima volta in America in un vecchio teatro che è stato una delle tante banche fondate da italiani a North Beach, il quartiere degli italiani di San Francisco, dove tutto ha avuto inizio.

 

Sognava d’essere pilota a Vicenza, ma divenne perito aeronautico, poi si laureò in Fisica. E partì per la California

Faggin qui è un eroe nazionale, nel 2010 ha ricevuto da Barack Obama la National Medal for Technology and Innovation, la massima onorificenza per il progresso tecnologico, ed è omaggiato al Computer History Museum di Mountain View. E’ arrivato la prima volta nel 1966 in questa che “prima di lui era solo una valley”, e basta (l’ha detto Bill Gates, non proprio un passante). Lui in realtà sognava d’essere pilota a Vicenza: “Ma avevo dei problemi a un occhio, così scelsi l’istituto tecnico industriale, dove c’era la specializzazione in perito aeronautico. Se non potevo pilotarli potevo almeno costruirli”. Il padre, Giuseppe Faggin, era un professore di filosofia al liceo, “ovviamente classico”, oltre che traduttore delle Enneadi di Plotino e appassionato di occultismo”. “Così naturalmente ero destinato a fare il classico anch’io, ma avevo voglia di mettermi a inventare delle cose, e pensai che tra liceo e università sarebbero passati quasi dieci anni. Allora divenni perito, un’onta che ancora mi porto dietro, nonostante poi una laurea in Fisica con centodieci e lode”. Laurea presa soprattutto perché “all’Olivetti, dove nel frattempo mi ero impiegato, notai ben presto che i periti tecnici non facevano molta carriera”, racconta Faggin al Foglio a margine dell’incontro organizzato da Istituto e Consolato italiano. Era l’Italia del boom, “stavo nel laboratorio di elettronica Olivetti vicino a Milano, dove furono realizzati i loro primi computer digitali”. A Milano prende una stanza in affitto insieme al compagno di scuola Alberto, e delle coinquiline misteriose. “A un certo punto è arrivata la polizia, capimmo solo a quel punto che era una stanza che affittavano a ore. Non avevamo sospettato nulla, nonostante il viavai. Che ne sapevamo di come era fatta una prostituta?”. E’ un’Italia ancora da “Albero degli zoccoli”: quando chiede la mano al futuro suocero di quella che è tutt’ora sua moglie, Elvia (a cui il padre dava ripetizioni di filosofia), solo allora può dormire da lei. Ma solo perché, come in una scena da “Amici miei”, il Bacchiglione, il torrente che scorre vicino casa a Vicenza, ha esondato, “io ero lì a trovarla, e siamo rimasti isolati con l’acqua congelata che aveva invaso il pianterreno. La mamma di Elvia ci fa togliere le scarpe e ci porta una bacinella d’acqua calda per riscaldarci i piedi. La nonna e i sei fratelli cominciano a guardarci strano. Tutta quella intimità, seppure solo di piedi, non era concepibile nel Veneto degli anni Sessanta”. Lo stesso anno partono per la prima volta per la California per uno scambio con la californiana Fairchild. Prende finalmente il primo aereo della sua vita.

 

A San Francisco c’erano il movimento studentesco, la liberazione gay, la controcultura. I beat, e la summer of love. I Grateful Dead, il dottor Leary che studiava l’Lsd, e Tom Wolfe inviato da New York che raccontava tutto. “Un altro mondo”. E soprattutto la gente era più simpatica che in Brianza. “Nessuno era nato lì. Dunque non esisteva il concetto di forestiero, anzi di foresto, come si dice da noi di chi viene da dieci chilometri di distanza. Facilità di fare conoscenze. Io ad Agrate Brianza non conoscevo nessuno. In California abbiam fatto subito amicizia con tutti”.

 

“Un computer è solo un computer. C’è più intelligenza in una foglia di basilico che nel computer più sofisticato”

La Silicon Valley all’epoca era solo “una valley”, appunto, soprattutto una distesa di campi e frutteti. E però, choc alimentari-culturali prima che diventasse il tempio dell’avocado toast e della cucina organic. “Il pane era solo quello in cassetta, non l’avevamo mai mangiato così, aveva la consistenza della colla. La pasta teneva la cottura per un millisecondo. Al ristorante la luce era bassissima, era quasi completamente buio e non riuscivamo a leggere il menu. Ah, e non si trovava il vino, se non nei pochi ristoranti francesi o italiani. Non esisteva che si bevesse il vino a cena. Tutti prendevano dei gran cocktail prima di mangiare, e dopo cena un bel caffelatte”. E’ il “Mad Men” della Silicon Valley.

 

Nel frattempo ci siamo trasferiti a far colazione, intesa come breakfast, in un bar italiano di Palo Alto. Orario da siliconvallico moderato, le otto e mezza (i boss più scatenati danno sadicamente appuntamento alle sei e mezzo-sette). Faggin arriva con la sua Mercedes argento, look da piccolo imprenditore del Nordest – camicia a righe, giacca, mocassini – più che da fanatico dell’hi tech. Unica civetteria, la targa della macchina, FF 4004, le sue iniziali e il numero che gli ha portato fortuna. Prende le uova strapazzate e non fa le diete allunga vita dei vari Peter Thiel che hanno l’ufficio qua dietro. La musica nel bar suona “Il mondo” di Jimmy Fontana. Ritorno alle origini. “La valle era un decimo di quella che è oggi”, racconta. “San José era un villaggio, il centro la sera era pericoloso, e bisognava stare chiusi in casa. Noi la prima volta abbiamo preso una casa a Mountain View, poi a Cupertino”. Nomi oggi mitici, che però all’epoca senza Google e Apple erano solo cittadine sfigate. “Palo Alto era diverso, è sempre stata una cittadina bella, coi teatri, i cinema, l’università di Stanford. Ma a Mountain View c’era il centro della Nasa, e la base dei caccia americani che pattugliavano il Pacifico, e partivano giorno e notte. E’ poi grazie alla Difesa che è nato tutto. Se non ci fosse stato il mercato aerospaziale non ci sarebbero stati i primi circuiti integrati e i primi transistor non sarebbero potuti nascere”.

 

Faggin entra alla Intel: “Vengo assunto nell’aprile del 1970. Fino ad allora i calcolatori erano macchine gigantesche che funzionavano con transistor enormi, lenti, costosi. Io realizzai un microprocessore piccolo, a buon mercato, che consumava poco ed era affidabile. E’ il primo microprocessore commerciale al mondo (l’Intel 4004, quello della sua targa), che dà vita a una serie di derivati prodigiosi. Macchine fantastiche ma uomini tremendi. Di nuovo “Mad Men”. Andy Grove, il leggendario presidente della Intel, è un sadico. “Veniva dall’Ungheria, si chiamava in origine Grof, aveva un phd in chimica, era molto intelligente ma sempre più cattivo man mano che il tempo passava. La mattina se arrivavi in ritardo anche solo di cinque minuti dovevi autodenunciarti e firmare un pezzo di carta, e poi arrivava il cazziatone da parte dei tuoi superiori, anche se magari avevi lavorato tutta la notte come facevo io”. “Aveva scritto anche un libro, “Only the Paranoid Survive”, solo i paranoici sopravvivono. Era una cultura, quella delle grandi aziende, che portava a essere competitivi in tutto, ossessionati dal vincere sempre. C’era questa sindrome Nih, Not Invented Here (non inventato qui). Diversi gruppi di lavoro nella stessa compagnia e ciascuno di questi, per principio, si rifiuta di mettere in pratica l’invenzione di un altro. Passi più tempo a far accettare la scoperta che a farla”.

 

“Capii che non avrei potuto essere un grande manager. Mi piace fondare le aziende, gestire una cosa grossa non fa per me”

Così nel 1974 diventa startupper per legittima difesa. “Non ne potevo più di passare il mio tempo a convincere i miei superiori a lanciare progetti che avrebbero poi fatto fare i miliardi a loro”. Lancia la sua prima azienda, la Zylog, che mette in commercio un processore ancor oggi in uso. “Smetto di essere quello che avrei pensato di essere per sempre, uno scienziato, per diventare un imprenditore”, dice Faggin. “Ma ho capito subito che non avrei mai potuto essere uno di questi grandi industriali o manager. A me piace fondare le aziende, ma gestire una cosa grossa no, occorre un carattere diverso, non fa per me”.

 

A proposito di carattere: con Steve Jobs ha avuto vari incontri ravvicinati. Il fondatore di Apple disse di no anche a una sua invenzione: una specie di pre iPhone, inventato negli anni Ottanta: “Il computer era appena diventato personal, grazie alla Ibm e alla Apple, che avevano lanciato i loro modelli, e c’era un grande fermento in giro. Si sognava l’ufficio del futuro, ovvero la società̀ senza carta, come veniva spesso chiamata. Ebbi l’idea di combinare un telefono intelligente con un pc. Lo chiamammo Cosystem. Aveva anche un sistema di posta elettronica che inviava automaticamente messaggi a uno o più utenti e li avvisava dell’arrivo di nuova posta con una spia luminosa”. Insomma uno smartphone, mentre in Italia non era arrivato ancora il telefono in macchina (quello con l’antennone mitologico), e dieci anni prima dell’invenzione di Internet. “Il Cosystem lo presentammo ufficialmente alla PC Fair di San Francisco nei primi mesi del 1984, dove vinse il premio per il prodotto più innovativo. Steve Jobs lo vide, e disse: bello, ma occupa troppo spazio sulla scrivania”.

 

Erano gli anni Ottanta quando Steve Jobs disse di no a una sua invenzione. Era una specie di pre iPhone

Nel 1986 un altro incontro scontro: Faggin fonda un’altra azienda, la Synaptics, dove metterà a punto il touchpad e il touchschreen, i nipotini del mouse (“cercavamo una tecnologia alternativa. Altri avevano messo a punto il trackpad, ma si riempiva di polvere, una schifezza”). Questa volta Jobs vuole i suoi prodotti a tutti i costi, “ma in esclusiva”. “Noi rifiutammo, allora loro se la produssero da soli. Il risultato non fu, come temetti, il nostro fallimento, ma una straordinaria apertura del mercato. Tutti a quel punto volevano il touch. E noi diventammo i fornitori di tutti i loro concorrenti, da Nokia a Blackberry”. Alla fine, di Jobs e degli altri “mostri” di Silicon Valley Faggin rispetta “l’incredibile visionarietà, la capacità di vedere cose che nessun altro vedeva, e di andare avanti finché qualcuno riusciva a realizzarle per loro. Oltre alla capacità estrema di gestire la loro immagine, tramite un controllo ferreo sulla stampa”. Certo l’immagine di questi siliconvallici è molto cambiata in generale nel tempo. Cinque anni fa questa era considerata la terra della salvezza e Mark Zuckerberg lo volevano a fare il presidente degli Stati Uniti; oggi pare l’impero del male, tra fughe di dati, trivellazioni di privacy, influenze elettorali nefaste. E il padrone di Facebook è una spece di Bin Laden. “In realtà oggi è solo più facile scoprire gli altarini. I comportamenti delle aziende sono sempre stati simili. E oggi in realtà soggetti come Facebook fanno comodo al sistema. Alla Cia o all’Fbi sono tutti contenti che ci sia qualcuno come Facebook che fa il lavoro per loro, dando accesso a tutta una serie di dati privati che loro altrimenti non potrebbero vedere”. I siliconvallici alleati delle spie? Addirittura? “Beh, fanno il lavoro per loro. Per questo quando è saltato fuori il caso di Cambridge Analytica gli hanno dato solo uno schiaffetto”. Una multa di cinque miliardi. “Appunto, per loro è nulla, è quanto fatturano in un mese”, dice Faggin, che insomma pare aderire in pieno al nuovo movimento anti siliconvallico, quello delle Shoshanna Zuboff e del “capitalismo di sorveglianza”, di Tim Wu e dei “mercanti di attenzione”; quello che ritiene il comportamento delle aziende predatorio sulla nostra privacy, quello per cui “se non paghi, il prodotto sei tu”. “Certo che sei tu il prodotto”, dice Faggin. “Queste aziende dovrebbero essere obbligate a rispettare condizioni di privacy molto strette. E poi farsi pagare per le proprie prestazioni. Io sarei felice di pagare Google per le email. Ma la gente preferisce che sia gratis, e in cambio non avere privacy. Perché non sanno tutto il marcio che c’è dietro”.

 

Abbiamo quasi finito il tempo. Faggin deve partecipare a un consiglio di amministrazione e poi partire per l’Italia. Lo sa che gli italiani hanno votato un governo su un software che si chiama Rousseau? “Ommadonna”. Lo accompagno alla Mercedes. Tra poco arriverà l’auto che si guida da sola. “Ma figuriamoci. Forse tra vent’anni”. “Già all’inizio degli anni Sessanta si cominciò a dire che presto i computer avrebbero superato l’intelligenza umana. Anche io ci credevo, sono trent’anni che studio questa cosa. Ma alla fine sono tutte balle. Nonostante siano molto più potenti, i computer di oggi non hanno nessuna consapevolezza, proprio come quelli di allora. Un computer è solo un computer: c’è più intelligenza in una foglia di basilico che nel computer più potente del mondo. Eppure continuano a dirci che presto saranno umani: forse perché vogliono che noi ci comportiamo come macchine”, dice il guru venuto dal Nordest; e poi saluta, dalla sua Mercedes da commendatore, scivolando via in mezzo a un oceano di Tesla.

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