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Sui social network viviamo una nuova èra iconica

Giovanni Maddalena

Secondo l'annuale report di Mary Meeker più del 50 per cento delle interazioni su Twitter è ora intrattenuto tramite immagini (siano esse fotografie o video). Le conseguenze di questo cambiamento

Dall’annuale report di Mary Meeker su internet, il più ascoltato dei report di Silicon Valley, si capiscono un po’ di trend della grande rivoluzione digitale a cui stiamo assistendo. Tralasciando l’incredibile dato economico che vede appartenere al mondo digitale sette delle dieci aziende più ricche del mondo e il numero di ore spese mediamente dagli americani nel mondo digitale (6.3 al giorno, con un quarto degli americani “perennemente connessi”), vorrei sottolineare il dato che riguarda l’uso delle immagini, siano esse fotografie o video. Per misurarlo, dice il report, basti pensare che più del 50 per cento delle interazioni su Twitter, social nato solo per dialoghi fatti di parole, è ora intrattenuto tramite immagini.

 

Certo, dice il report, ciò è dovuto all’ottima qualità delle videocamere presenti negli smartphone. Dotati di questi meravigliosi attrezzi siamo diventati tutti attori, fotografi e registi. Non ne sarebbero meravigliati Walter Benjamin e Andy Warhol, i quali, rispettivamente negli anni ‘30 e ‘70, avevano previsto per tutti qualche minuto di celebrità. Benjamin aveva addirittura esultato nella speranza di vedere i mezzi di produzione della comunicazione passare dalle mani di pochi a quelli di (quasi) tutti. Il pensatore tedesco non aveva previsto però che ciò coincidesse con una forma nuova di capitalismo, quello sui dati, che per ragioni e in modi diversi sottolineano sia il filosofo Maurizio Ferraris sia il giornalista free lance Riccardo Ruggeri. La democratizzazione delle immagini per ora non ha creato il comunismo felice con la partecipazione di tutti alla proprietà ma una strana forma di welfare medio-basso ancora da studiare e capire bene.

 

Lasciando perdere il lato politico-sociale dell’uso delle immagini, ci si chiede spesso se dal punto di vista della comunicazione e della conoscenza ciò che sta avvenendo sia un bene o un male. Di per sé, le immagini sono un tipo di segno che si chiama icona e che, come le omonime immagini sacre, rendono più vicino e più presente l’oggetto rappresentato. La comunicazione è così più spontanea, veloce, emotiva. Guadagna in realismo e semplicità, provoca un atteggiamento più reattivo e sentimentale. Alcuni degli effetti che amiamo e di quelli che deprechiamo sono frutto di questa comunicazione. Funzionano di più crowdfunding e campagne di sensibilizzazione; sono favoriti il turismo e le visite culturali; manteniamo più rapporti sociali; il verbo emozionare e il fine di emozionare sono diventati tra i più popolari; si è perennemente in campagne elettorali e le tendenze politiche si sono polarizzate. Insomma, qualunque sia il giudizio che uno esprime su questi e altri mille effetti delle immagini, viviamo in un’era iconica, più vicina agli oggetti, nel bene e nel male.

 

È vero che nell’era iconica si ragiona di meno e che i giovani stanno peggiorando? No, anche in questo caso la questione è più sottile. Si ragiona di meno in senso analitico, cioè sono meno frequenti le indagini che spezzettano problemi e oggetti in miriadi di diversi aspetti. Il mondo delle immagini però è anche più incline a creatività e sintesi, alla capacità di mettere insieme tanti fattori in soluzioni nuove. Del resto, come fa capire il matematico Giuseppe Longo, la storia della civiltà matematica comincia con l’enorme salto culturale e matematico del gesto pittorico che inventa i bordi per le figure degli animali nelle cave di Lascaux, per non parlare dei capolavori logico-matematici dell’architettura e della pittura medievali e rinascimentali. Abbiamo attraversato già diverse ere iconiche e sono state ere ricche almeno quanto quella simbolica, cioè con prevalenza di parole e concetti analitici, degli ultimi due secoli. Insomma, anche le icone hanno una loro logica, che andrà studiata, capita e insegnata. Non è assicurato che il cambiamento sia per il meglio, ma non è affatto detto che sia per il peggio.

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