Nel 2018 sono stati investiti in innovazione tecnologica nel settore dell’agrifood 16,9 miliardi di dollari (foto FoodTech-Galilee)

Dalla Galilea si vede il futuro

Gabriele Carrer

Israele attraversa una fase politica turbolenta, ma sta costruendo un ecosistema di innovazione e integrazione unico al mondo. Due chiacchiere con Erel Margalit

Quando a Erel Margalit si parla di innovazione, a lui che attraverso i vari fondi della sua Jerusalem Venture Partners ha raccolto in un quarto di secolo oltre 1,3 miliardi di dollari, brillano gli occhi. Ma se gli si parla di innovazione legata al cibo, gli occhi luccicano. Non c’entrano soltanto gli affari, ma anche la sua storia: i suoi genitori vivevano in un moshav (gli insediamenti agricoli nati in seguito alle migrazioni ebraiche di inizio Ventesimo secolo), lui nato nel kibbutz dove sono stati inventati gli irrigatori e poi diventato uno degli architetti della cosiddetta “start up nation”, le figlie da cui, dice, ha imparato l’attenzione al cibo salutare, la “sfida dei prossimi 20 anni per il mondo”. Promette la rivoluzione sostenibile del cibo con droni e intelligenza artificiale, Margalit, secondo la lista Midas di Forbes il primo venture capitalist non americano e secondo il quotidiano finanziario israeliano TheMarker il venture capitalist con il “golden touch”.

 

Abbiamo incontrato Margalit in un bar del centro di Milano: è stato in città per partecipare al Seeds&Chips, il più importante evento internazionale dedicato all’innovazione nella filiera agroalimentare, e per incontri con imprenditori e politici italiani. Nel suo curriculum Margalit non ha soltanto la fondazione di una delle prime sei venture capital al mondo ma anche quattro anni in quel Parlamento israeliano che in questi giorni è il teatro di una grande e inattesa instabilità politica dopo la vittoria elettorale del premier Benjamin Netanyahu e le difficoltà a creare una coalizione stabile di governo. Margalit è stato un deputato dei laburisti, alla guida delle taskforce per la cyber-security e per lo sviluppo del nord e del sud del paese. Lasciata la Knesset ha fondato nel 2013 l’organizzazione Israel Initative 2020 per rispondere alle sfide di un paese definito la “start up nation” ma in cui il 21,2 per cento della popolazione (cioè 1.780.500 persone) vive al di sotto della soglia di povertà e in cui soltanto un israeliano su 25 lavora nell’hi-tech. Così Margalit ha diviso Israele in sette regioni di eccellenza con l’obiettivo di creare lavoro e sviluppo, combinando tecnologia e istruzione. Da questo modello sono nati il JVP Media Quarter a Gerusalemme e il Cyber Quarter a Be’er Sheva, nel sud di Israele, dove prima era tutto deserto del Negev e dove oggi sorge una città della sicurezza informatica nella quale convivono start up, multinazionali come IBM, Lockheed Martin e Deutsche Telekom, le varie agenzie governative che si occupano di difesa di infrastrutture e sistemi informatici e l’Università Ben Gurion.

 

Ora si sta occupando del Digital Health Quarter nel cuore della città di Haifa ma soprattutto del Foodtech Quarter in Galilea. Da qui, infatti, è partita la sfida di Margalit per fare di Israele il paese leader nel mondo nel settore del foodtech. Precisamente da Kiryat Shmona, che si trova nella Valle di Hula e alle pendici del monte Hermon, da una struttura storica chiamata Beit Asher, che fu la prima scuola della città e diventerà il centro dell’ecosistema voluto da Margalit e sostenuto dal ministero dell’Economia israeliano.

 

Yalla è il motto di Margalit, a cui, ci racconta, piacciono soltanto le grandi sfide. “Israele è da sempre un miracolo dell’agricoltura frutto della necessità di sopravvivere in una terra non proprio favorevole a questo settore. Ma con la crescita di Israele sono arrivate le innovazioni”. Da un territorio poco più grande della Puglia ma con ridotta disponibilità di acqua e di terra coltivabile è nata una delle agricolture più avanzate al mondo grazie alla ricerca e alla cooperazione tra comunità, governo e aziende.

 

“La Galilea mi ha chiesto tre anni fa di realizzare qualcosa di simile a quello che abbiamo realizzato per la sicurezza informatica a Be’er Sheva”, racconta: “Ho promesso di portare la regione a essere leader del paese e del mondo nel foodtech in sette anni”. Nessuno ci credeva, credeva nell’innovazione in una regione così umile, spiega Margalit. “La Galilea ha le più alte montagne e le più basse valli del paese: possono nascere ciliegie sulle prime, mango e banane sulle seconde, e tutto il resto in mezzo. Abbiamo messo assieme i 45 kibbutz del nord e alcune città che non erano molto forti economicamente. Ora, se guardi la Terra con un telescopio dalla Luna e ti chiedi dove si sta realizzando la più grande rivoluzione del cibo e della tecnologia al mondo, la risposta è Israele”.

 

Margalit immagina la Galilea come la Silicon Valley del cibo. “Il mondo del cibo e dell’agricoltura subirà cambiamenti epocali nei prossimi dieci, venti anni”. Il suo approccio è frutto dell’esperienza personale, dell’esperienza quotidiana della sua famiglia: “Ho tre figlie che non mangiano ciò che ero abituato a mangiare io, e le loro scelte hanno influenzato molto le mie e il mio impegno. I millennial cercano nel cibo una fonte di salute non soltanto di nutrizione”. Così il mondo sta vivendo, continua Margalit, una corsa a reinvitare il cibo e i processi di produzione del cibo paragonabile a quella che abbiamo visto negli anni passati in California per lo sviluppo di computer, smartphone e molto altro. “Questa innovazione viene non soltanto dalle grandi aziende ma buona parte nasce dalle start up e dalle università”.

 

Qualche numero presentato a Seeds&Chips aiuta a inquadrare il settore: 7,8 trilioni di dollari è il valore dell’agrifood a livello mondiale, che occupa il 40 per cento della popolazione; nel 2018 sono stati investiti in innovazione tecnologica nel settore 16,9 miliardi di dollari, il 43 per cento in più dell’anno precedente. Soltanto in Cina 3,52 miliardi di dollari, il 95 per cento in più del 2017. E solo in Italia lo sviluppo sostenibile creerà 3 milioni di posti di lavoro. Al business Margalit accoppia la sua visione sociale di foodtech e agritech: “Non possiamo continuare a utilizzare la plastica e l’alluminio per confezionare i cibi, abbiamo bisogno di prodotti biodegradabili. E non possiamo continuare con gli allevamenti intensivi di animali”, dice. Una soluzione la propone la start-up InnovoPro, una delle realtà sostenute da JVP capace di raccogliere 4,25 miliardi di dollari, che ha creato una proteina alternativa a quella animale a partire dai ceci, elemento centrale nell’alimentazione mediterranea e un classico della cucina israeliana. “Dobbiamo cambiare anche il nostro zucchero, che è la causa del 20 per cento delle malattie nel mondo. Qualcosa deve e sta per cambiare: non è possibile che due americani su cinque siano obesi”.

 

Margalit, uomo che nonostante una fortuna stimata in 400 milioni di dollari non dimentica il suo essere un kibbutznik impegnato a lavorare per tutti e non soltanto per sé, pensa il futuro guardando al suo passato, alla storia della sua famiglia, dei suoi genitori che vivevano in un moshav e mai avrebbero pensato a così grandi innovazioni per le loro colture, dei suoi parenti che partiti da un piccolo villaggio nel distretto centrale di Israele ora producono nel nord alcuni tra i migliori vini rossi del paese. “Durante la diaspora, per 200 anni, a noi ebrei non era permesso coltivare la terra”, racconta. “La gente si chiede perché gli ebrei sono spesso avvocati, dottori o banchieri: non ci era permesso di essere agricoltori. Mio nonno Avraham, nato in Russia, arrivò in Israele nel 1914 per lavorare la terra. Il suo cognome era Kaufmann, cioè mercante. L’ha cambiato in Ikar, cioè contadino. Io sono nato nel kibbutz Na’an, nel distretto centrale di Israele. E’ il kibbutz più popolato del paese ed è quello dove sono nate grandi innovazioni tecnologiche per l’agricoltura, a partire dagli irrigatori. Gli agricoltori sono persone di fatica. Ma domani, grazie ai droni, ai sensori, all’intelligenza artificiale non dovranno più fare certi sforzi e gestire i propri terreni attraverso la tecnologia”.

L’ex deputato laburista Erel Margalit e il premier Netanyahu non si sono mai troppo amati, come emerso anche prima delle elezioni di aprile: l’imprenditore si è schierato contro il premier per le sue questioni giudiziarie e per altre ragioni di sicurezza nazionale. Ma com’è capitato nel caso del Cyber Quarter a Be’er Sheva, anche in Galilea il governo di Gerusalemme e JVP vanno a braccetto. “In entrambi i casi ci sono grossi incentivi per le aziende che decidono di investire nel progetto”, racconta Margalit. Per l’acceleratore di Kiryat Shmona il ministero dell’Economia israeliano paga fino al 35 per cento degli stipendi entro i 30 mila shekel, pari a circa 7.500 euro, e grandi aziende che si trasferiscono in Galilea hanno diritto a una tassazione ridotta al 6 per cento, anziché al 23. E ancora: terreni gratis, sovvenzioni per gli investimenti in costruzioni e attrezzature, per i piani di sviluppo e per i processi di ricerca.

 

L’elemento militare, come sempre quando si tratta di innovazione in Israele, non può mancare. L’hub della Galilea può contare anche sul contributo dell’Eisp, il primo acceleratore di start up di Israele fondato da alcuni membri dell’Unità 8200, le forze d’élite della cyber-warfare dell’esercito israeliano. Non è certo il primo caso, visto che molti ex membri dell’unità hanno occupano posizioni di rilievo in multinazionali del tech. Due casi su tutti: Udi Mokady, presidente e amministratore delegato di CyberArk, e Gil Shwed, cofondatore e ceo di CheckPoint, entrambe aziende leader nel mondo della sicurezza informatica nate in Israele e arrivate fino agli Stati Uniti.

 

Quando si parla di simili sinergie in Israele si sente spesso utilizzare la parola ecosistema. “E’ quello che abbiamo realizzato a Be’er Sheva, ed è quello che stiamo costruendo in Galilea”, spiega Margalit. “Mettiamo assieme i ricercatori e le università, le piccole e medie imprese e le grandi multinazionali. Per questo, il Food Tech Quarter che sta nascendo sorge vicino all’università e nei pressi di molte aziende”.

 

Margalit vede la Galilea come la Silicon Valley del cibo, anche sotto l’aspetto della multiculturalità, grazie a case a prezzi competitivi, a stipendi elevati ma soprattutto alla possibilità di essere e sentirsi i pionieri della rivoluzione del foodtech. “Si tratta di una nuova area, metà uomini e metà donne, a differenze del Digital Health Quarter di Haifa che è a maggioranza femminile e del Cyber Quarter a Be’er Sheva, a maggioranza maschile”. In Galilea, poi, non ci sono soltanto ebrei. Ci sono ebrei, musulmani, cristiani, drusi. E attraverso la chiave del cibo e della diversità culturale Israele può espandere la propria collaborazione con i paesi vicini.

 

“Il Mediterraneo e il Golfo hanno bisogno di nuove strategie per affrontare le sfide del lavoro e della salute”, ci dice Margalit. “Nord e sud devono cooperare, ebrei, arabi e cristiani devono cooperare. Cibo, acqua, agricoltura e innovazione sono i primi ponti che, prima della politica, gli imprenditori stanno costruendo. Perché nella nostra regione, nel medio oriente ma anche nel Mediterraneo, è sempre più vero che il cibo è la chiave con cui aprire agli altri la porta di casa”.

 

L’altro strumento è l’innovazione: lui la chiama innovation diplomacy. E Yalla.10, riprendendo il suo motto, è l’idea di Margalit per la collaborazione tra paesi amici, e anche meno amici, in medio oriente. “Yalla, iniziamo a fare le cose tutti assieme. Stiamo cercando di mettere in comunicazione i centri hi-tech di dieci diverse città per promuovere la cooperazione tra le aziende israeliane e le altre nel Mediterraneo”. Dieci città, dieci idee, dieci progetti è il sottotitolo di Yalla.10, una rete che tocca, tra le altre, Amman, Casablanca, Tel Aviv, Gerusalemme, Il Cairo e Ramallah. C’è anche l’Europa in questi piani. I Paesi Bassi, che hanno uno tra i settori agricoli tra i più sviluppati al mondo grazie all’alto tasso di meccanizzazione, e la Francia, grazie all’interessamento in prima persona del presidente Emmanuel Macron, sono gli stati europei con cui Margalit racconta di avere i migliori rapporti per lo sviluppo del foodtech. “E ovviamente, gli Stati Uniti”, aggiunge. E l’Italia? “Sono venuto a Milano alla ricerca di nuove sinergie, come quelle con l’Università di Firenze, la Regione Sardegna e diverse realtà nel nord Italia. Il vostro paese è uno leader mondiali del cibo, ma è tempo che lo diventi anche del foodtech. E l’unico modo per farlo è attraverso una partnership con Israele”. La cooperazione con il nostro paese sembra procedere un po’ a rilento, ma i contatti ci sono, la determinazione anche e, l’avrete capito, Margalit è un uomo fiducioso, con gli occhi che brillano.

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