Detox digitale? No, grazie

Eugenio Cau

Si parte da Twitter, si arriva allo smartphone. Ma è meglio astenersi dalla retorica della disintossicazione digitale, perché non funziona

La disintossicazione è un mito antico. Ha origine nella medicina pre moderna, in cui gli sciamani e guaritori erano convinti che i mali degli uomini fossero causati da “miasmi”, “umori”, “tossine”, e che il modo migliore per guarire fosse espellere le sostanze maligne dal corpo. Sul concetto di disintossicazione si basa ancora la gran parte delle medicine alternative, ed è un concetto che, per la sua immediatezza, fa ancora molta presa sui creduloni. Se stai male la ragione è semplice, c’è qualcosa dentro di te che va espulso, prendi questo composto di erbe e iscriviti a questo corso di yoga purificante, sono soltanto 200 euro al mese. Negli anni Sessanta e Settanta il concetto di disintossicazione (detox) è entrato nella dieta, per convincere gli stolti che mangiando in un certo modo ci si può liberare delle “tossine” accumulate nel corpo. Sono bufale ben note, che tuttavia faticano a morire. L’idea che per migliorare il proprio stato di salute fisica e mentale servano un digiuno, un’astensione, perfino un esorcismo per eliminare la componente malvagia continua a riproporsi in mille maniere.

 

Quest’estate spegnete il cellulare e non rispondete alle email, consigliano gli esperti di lifestyle. “Vorrei cancellarmi da Facebook”

Prendete internet. L’idea di disintossicarsi da internet, dai social network, dalla tecnologia è in gran voga. Questa estate spegnete il cellulare e non rispondete alle email, consigliano gli esperti di lifestyle. Quando sono in vacanza stacco tutto e mi disintossico, è la tipica conversazione da macchinetta del caffè. Vorrei tanto cancellarmi da Facebook, si dice durante una serata tra amici subito dopo aver postato le foto della cena proprio su Facebook. Migliaia di libri di autoaiuto sono stati pubblicati in tutte le lingue sul tema del “detox digitale”, milioni di pagine internet, centinaia di app. Quest’anno, Apple ha presentato una app installata su tutti gli iPhone che consente di monitorare il tempo trascorso davanti allo schermo, con l’obiettivo di ridurlo. E’ il ridicolo definitivo: usare lo smartphone per ridurre l’utilizzo dello smartphone.

 

La moda più recente riguarda i social network. Da quando Maggie Haberman, reporter premio Pulitzer del New York Times, ha scritto sul suo giornale che avrebbe ridotto l’uso di Twitter soltanto alle breaking news e alle segnalazioni dei propri articoli (molti giornali italiani, ovviamente, hanno scritto che la Haberman si cancellava del tutto da Twitter) si è tornato a parlare con insistenza di detox dai social network, con lunghi elenchi di giornalisti famosi, celebrity e vip di vario tipo che hanno abbandonato i social (quasi sempre Twitter e Instagram, Facebook non lo molla nessuno) perché si sono convinti che soltanto in questo modo possono migliorare il proprio benessere psicofisico ed eliminare le tossine metaforiche generate dall’uso eccessivo degli strumenti di comunicazione digitali.

 

Ve lo diciamo subito: è una stupidaggine madornale.

 

Lo “screen time” cronometrato, l’ossessione per lo schermo e il mito dell’epoca della disconnessione in cui tutti eravamo più felici

Maggie Haberman espone molti argomenti ragionevoli nell’articolo del New York Times in cui spiega perché vuole ridurre drasticamente il suo utilizzo di Twitter, e nella fattispecie eliminare le interazioni malsane con lettori e utenti. Haberman è un mastino del giornalismo, segue Donald Trump dal 2015 e ha portato al suo giornale decine di scoop dalla Casa Bianca. Lavora sulla linea di faglia di tutte le principali divisioni della politica americana e mondiale, e scrive di un presidente americano che usa Twitter in maniera polarizzante, trasformando ogni tweet in un’arma contro i suoi nemici – compresa la stessa Haberman. Scrive la giornalista: “Trump ha cercato di trasformare tutti quelli che sono intorno a lui, compresi i giornalisti che scrivono di lui, in un elemento della sua storia. E la gente su Twitter ha cominciato a interagire con me nella stessa maniera, trattandomi come se fossi uno dei protagonisti della narrativa del presidente. Mi sono trovata nel mezzo di ondate di attacchi feroci su Twitter, come è successo a molti altri giornalisti nell’èra di Trump. […] Ma c’è un problema: la maggior parte di noi non vuole far parte della storia”.

 

Che una giornalista perennemente sotto l’attacco dei troll trumpiani (oltre che del troll-in-chief) abbia deciso di ridurre drasticamente l’utilizzo del social network che la rende miserabile è abbastanza comprensibile. Ma anche Haberman, nonostante tutto, ha deciso di rimanere su Twitter, continua a twittare con continuità, quattro-cinque volte al giorno, e siamo sicuri che non abbia ridotto la frequenza con cui controlla le notizie e i commenti sul social network. Niente detox, insomma, per una ragione molto semplice: per un giornalista, Twitter è diventato uno strumento essenziale, ben più efficiente delle agenzie di stampa. Nessun giornalista può davvero permettersi di abbandonare Twitter, e chi l’ha fatto poi è tornato, come per esempio Glenn Thrush, collega di Haberman al New York Times, che nel 2017 annunciò: “Ho deciso di cancellare il mio account Twitter a mezzanotte. Troppe distrazioni”. Trascorse la mezzanotte e l’account era ancora lì. Thrush lo lasciò inutilizzato per qualche mese, poi riprese a twittare come se nulla fosse, evidentemente le distrazioni non lo disturbavano più.

 

Twitter è uno strumento essenziale per i giornalisti. Ma tutti gli altri? Le celebrity che annunciano che smetteranno di twittare o di postare su Facebook o di instagrammare? Facciamo una scommessa che non possiamo né vincere né perdere, perché è inverificabile, ma che ugualmente potrebbe essere istruttiva: qui siamo sicuri che nessuno dei personaggi famosi che a un certo punto della loro carriera hanno annunciato che avrebbero smesso di usare i social lo abbia fatto davvero. Anzitutto perché molte star si sono rimangiate la decisione a poche settimane – in alcuni casi pochi giorni – dall’annuncio. Ma anche quelli che hanno resistito, e che Twitter l’hanno cancellato davvero, probabilmente hanno messo su un account fasullo per continuare a guardare cosa si dice di loro. E’ un’ipotesi, ma non così azzardata.

 

Avrete notato che finora si è parlato soltanto di Twitter. Di tutti i social network, Twitter è al perfetto incrocio di tossicità, se così vogliamo definirla. Ci sono social molto più violenti e molesti, ma nessuno è altrettanto celebre e diffuso. Ci sono social molto più popolari (Facebook), ma in nessun altro è possibile accedere ai politici e alle star del cinema e della musica in maniera così diretta. Se scrivo un messaggio di insulti a un attore come commento sotto a un suo post di Facebook è probabile che si perderà nella massa. Ma se taggo un attore in un tweet, è assai più probabile che i miei insulti siano letti. Se voglio molestare un personaggio famoso, è Twitter che devo usare – è per questo, dunque, che quando si parla di detox digitale Twitter è sempre il primo colpevole.

 

Che una giornalista sotto l’attacco dei troll trumpiani abbia deciso di ridurre drasticamente l’utilizzo di Twitter è comprensibile

Eppure l’idea di disintossicazione da internet è infinitamente più ampia di così. Parte da Twitter e finisce per estendersi a tutti i social, poi all’utilizzo dello smartphone, per poi coagularsi nella frase “bisogna uscire più di casa e stare meno davanti al computer/cellulare/videogiochi”. Il detox digitale è un business milionario, sono stati costruiti hotel e villaggi vacanze con schermature dal segnale o in luoghi remoti per offrire agli avventori (ben) paganti una vacanza senza senza connessioni, e come abbiamo già accennato ci sono libri, app, corsi didattici.

 

I social network dunque sono soltanto una delle componenti della retorica del detox digitale. Le altre sono lo schermo (lo “screen time”, ossia il tempo trascorso davanti a un monitor, è l’ossessione di ogni genitore apprensivo) e la connessione, l’idea che, per qualche ragione non precisata, la vita disconnessa che vivevamo fino a trent’anni fa fosse meglio della vita connessa che viviamo oggi, e dunque è consigliabile, per quanto possibile, staccare tutto. Già così si vede che nell’idea del detox digitale, nell’idea che per aumentare il proprio benessere sia necessario ripudiare e allontanare la tecnologia, si ritrovano alcuni elementi noti. Anzitutto il mito dell’età dell’oro, di un’epoca della disconnessione in cui tutti eravamo più felici, avevamo un contatto più diretto con la natura, vivevamo i rapporti personali in maniera più sana. Sintomo fondamentale della mitizzazione dell’analogico è la frase: ai miei tempi ci si parlava al telefono, i ragazzi di oggi non sanno più nemmeno parlare, usano i messaggini freddi e impersonali – l’ironia di questa frase sta nel fatto che, qualche generazione fa, era chi telefonava a essere disprezzato per la vacuità del rapporto umano che si creava lungo il filo.

 

Twitter, al perfetto incrocio di tossicità, è sempre il primo colpevole. Ci sono social più molesti, nessuno altrettanto diffuso

L’ossessione per lo schermo, inoltre, denota un sospetto pregiudiziale nei confronti della tecnologia. I genitori che cronometrano lo “screen time” dei loro bambini non sono preoccupati tanto per i contenuti che i pargoli possono esperire usando la tecnologia, ma per l’influsso negativo che il semplice contatto con la tecnologia può provocare, a loro dire.

 

Soprattutto, il detox digitale soffre del medesimo problema del detox alimentare che andava di moda qualche tempo fa: non funziona. Se smetti di usare internet per qualche giorno o qualche mese non ti senti meglio, non impari all’improvviso ad avere rapporti umani pieni, non sei una persona migliore. Il detox digitale è un altro estremismo, come chi professa di astenersi dall’alcol o dal sesso per ragioni di benessere, chi mangia cibo senza glutine pur non essendo celiaco, e così via.

 

Dunque la tecnologia non rappresenta un pericolo? Occhio, dire che il detox digitale non funziona non significa dire che nulla di male può venire dal digitale. Internet può essere davvero dannoso per il benessere delle persone. Facebook, Google e gli altri servizi online sono stati studiati con esperti di psicologia comportamentale per creare più dipendenza possibile, ed è vero che a ricevere un like molte persone ricevono una scarica di endorfine che a poco a poco diventa insostituibile. La tecnologia va usata con cura. Internet va usato con cura. Servono addestramento e buon senso. Se Twitter vi dà il tormento e non siete Meggie Haberman, molestata niente di meno che dal presidente degli Stati Uniti, è probabile che non sappiate usarlo. Se vi sembra che le relazioni umane online siano vuote di significato, non pensate di poter fare meglio faccia a faccia. Non ci si disintossica dalla tecnologia. La tecnologia si impara.

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.