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Tutti a prendersela con Facebook, ma date un occhio anche agli altri

Eugenio Cau

Niente di quello che abbiamo “scoperto” con lo scandalo di Cambridge Analytica è nuovo e, anzi, tutto era ben pubblicizzato

Roma. Ci sono molte ragioni che giustificano il tour della vergogna che Mark Zuckerberg, fondatore e ceo di Facebook, ha cominciato alla fine della settimana scorsa, dopo lo scandalo di Cambridge Analytica. Zuck si è presentato alle tv e ai giornali, ha pubblicato una paginona sui quotidiani inglesi in cui chiede perdono, è apparso penitente e addolorato. Ricordiamo velocemente perché, ci tornerà utile tra poco. Più che il caso Cambridge Analytica per sé (vale a dire: più che l’uso che la società di Steve Bannon ha fatto dei dati presi da Facebook), a scandalizzare gli utenti è stato il fatto che per anni Facebook ha ceduto (e non ha ancora smesso, anche se ha adottato limitazioni) i dati personali dei suoi utenti come fossero caramelle. Ne ha fatto un uso allegro e senza scrupoli, massimizzando le prospettive di profitto a scapito degli interessi delle persone. Il passaggio logico fondamentale, quello che infine ha generato il movimento #deletefacebook, è che Facebook deve fare un uso senza scrupoli e tutele dei dati dei propri utenti, perché questo è il suo modello di business. Se Facebook non facesse libertinaggio allegro con i nostri dati, non sarebbe il gigante che è oggi e forse non esisterebbe nemmeno: non c’è via d’uscita.

 

Ma se il capo d’accusa principale contro Facebook riguarda l’utilizzo dei nostri dati, allora perché prendersela soltanto con il povero Zuck? Google, per esempio, legge le nostre email dal 2004.

 

Rispetto a Facebook, Google non è coinvolto in nessun evento controverso e in generale ha molti meno scandali all’attivo. Anzitutto perché si muove con più accortezza (confrontate i motti delle origini: “Don’t be Evil” a Mountain View contro “Move Fast and Break Things” a Menlo Park), e poi perché il suo business di motore di ricerca offre meno elementi di vulnerabilità: con Google, un troll russo ha poco da infiltrare. Quando si parla di monopolio dei dati, il discorso cambia. Facciamo un elenco incompleto: Google sa tutto quello che avete cercato su Google, e fin qui è facile. Se usate Gmail, Google ha la vostra posta elettronica. (Nota: ovviamente nessun dipendente Google legge le vostre mail, ma il loro contenuto è inserito in maniera automatica nel calderone dell’algoritmo). Se usate Google Maps, sa dove andate. Se usate il browser Chrome e avete attive le impostazioni di sincronizzazione, sa non solo tutto quello che avete cercato su Google ma anche tutte le altre pagine che avete visitato. Ci si lamenta perché Facebook ha le foto che abbiamo caricato su Facebook, ma se usate Google Foto (servizio eccellente) Google ha tutte le vostre foto, perché il caricamento è automatico. Se usate Google Calendar, conosce i vostri impegni. Se avete un cellulare Android (cioè: tutti tranne gli iPhone) sa tutte le cose di cui sopra più molte altre, compresi chiamate, sms, la vostra posizione in tempo reale. Domenica Facebook è stato scorticato ancora una volta perché otteneva i dati di chiamate e sms dagli smartphone Android, ma quei dati, in realtà, erano gentile concessione di Google. Tra pochi giorni, con qualche anno di ritardo sul mercato americano, Google lancerà anche in Italia Google Home, un assistente digitale fatto per stare nei salotti degli utenti con due microfoni sempre aperti e pronti a cogliere tutto ciò che dite.

 

Ora, niente di tutto questo è una novità, e chi si intende un minimo di tecnologia dirà: bah! tutte queste cose le sappiamo da anni. E’ vero. Google è piuttosto esplicito su quali dati raccoglie e su come li usa. Ma lo stesso vale per Facebook. Niente di quello che abbiamo “scoperto” con lo scandalo di Cambridge Analytica è nuovo e, anzi, tutto era ben pubblicizzato. In questi giorni sono usciti report secondo cui perfino il comportamento di Cambridge Analytica (il passaggio illecito dei dati di Fb da un ricercatore a un’agenzia di analisi politica) era in realtà un segreto noto a tutti gli addetti ai lavori e una pratica piuttosto diffusa. Ciò che è nuovo nel grande “techlash” di questi giorni non sono i fatti, ma il risveglio degli utenti che all’improvviso si sono sentiti sfruttati e delusi. E in quanto a utilizzo spregiudicato dei dati, Facebook è certamente in buona compagnia. C’è Google, ma anche Amazon ha il suo assistente digitale casalingo, e lavora da tempo nel settore dell’entertainement. Netflix e Spotify maneggiano i nostri gusti artistici, e anche Apple, che dall’alto del suo impero dell’hardware fa la predica alla concorrenza compromessa con il traffico di big data, il mese scorso ha concesso al regime cinese l’accesso ai dati dei suoi utenti locali.

 

Sono informazioni che gli addetti ai lavori hanno sempre avuto, ma il caso Cambridge Analytica ha risvegliato anche tutti gli altri, i milioni di utenti che finora hanno giocato senza conoscere le regole, e ora si chiedono stupiti: ma davvero Facebook ha dato in giro le mie foto? Sì, lo fanno tutti – come da citatissimo aforisma di Steve Jobs, se il prodotto è gratis il prodotto sei tu. Non c’è niente di male, e spesso lo scambio tra dati e servizi efficienti è molto conveniente. Ma se il mondo ha iniziato a prendersela con Facebook dopo Cambridge Analytica, siamo a un solo scandalo di distanza prima che il techlash diventi generalizzato e brutale.

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.