Perché i loghi dei marchi digital oggi sono tutti uguali?

Michele Boroni

Le nuove versioni dei loghi di Google, Airbnb, Spotify e Pinterest hanno caratteri tipografici simili. Ma ci sono delle spiegazioni

“L'allarme” è arrivato da un tweet di Oh no Type Co., blog di San Francisco di indispensabile lettura per tutti gli amanti di grafica, genere lettering e font. L'immagine legata al tweet era piuttosto esplicativa e non aveva bisogno di ulteriore spiegazioni. In alto una riga di loghi di importanti brand della digital economy (Google, Airbnb, Spotify, Pinterest) alla loro nascita, ognuno con una propria identità visiva, una originalità e, di conseguenza, anche l'insita capacità di essere ricordabile. Nella riga inferiore le nuove versioni dei loghi, tutte con caratteri tipografici sans-serif notevolmente simili. Una casualità? Pensiamo proprio di no, considerato le aziende coinvolte e l'importanza che il loro marketing riserva ad ogni piccolo dettaglio.

 

 

In realtà dietro a questo cambiamento ci sono delle spiegazioni, alcune puramente tecniche, altre culturali, altre ancora puramente strategiche. Proviamo ad analizzare una per una. Partiamo da quelle squisitamente grafiche: si tratta in tutti i casi di caratteri Sans Serif, ovvero senzagrazie, cioè senza i tratti terminali, comunemente chiamati bastoni (il logo del Foglio è invece tipicamente con grazie). Sono quindi caratteri molto semplici, facili da riprodurre e soprattutto da leggere sugli smartphone, luogo eletto per la loro fruizione. Impatto e chiarezza sono ormai le parole chiave richieste da tutti i brand per la costruzione dei loro loghi: da una parte perché ci si rende conto che gli utenti sono sempre più bombardati da elementi visivi di ogni genere, dall'altra perché un marchio semplice e leggibile evoca anche servizi facili da usare, diretti e chiari. In particolare, quelli citati sono tutti marchi affermati, e quindi il loro obiettivo di comunicazione non è più quello di “fare rumore” per distinguersi visivamente, ma risultare affidabile nella vita quotidiana delle persone.

 

C'è poi da fare una riflessione più “marketing-oriented” legato al logo e all'identità visiva. Un tempo il logotipo era ispirato al concetto da comunicare (nel caso specifico, il logo originale Spotify con quelle onde sonore sopra la O faceva intuire che si trattava di qualcosa legato alla musica). Adesso il logo non ha più questa funzione fondamentale: oggi è il marchio (ovvero il nome e i valori materiali e immateriali che evoca) che fissa il concetto. Oltre a questo c'è anche una riflessione specifica da fare sui marchi legati alle utility digitali: oggi siamo così pervasi da queste app, siti e servizi mobile che sono diventati parte della nostra vita quotidiana e quindi anche della nostra “lingua”. I marchi diventano quindi sempre più parole (o meglio, verbi) di uso comune. In inglese l'espressione “I google this” è ormai un esempio intelligibile da tutti, anche nella (fastidiosa)forma italiana “Ora lo googlo”. E' quindi evidente che se un marchio diventa parola è più importante che diventi un carattere piuttosto che un logo. Prima di chiudere, un'ultima considerazione che in realtà rende simili i (non) loghi digital con quello di altre categorie merceologiche che tendono ad uniformarsi e addirittura a conformarsi su codici grafici simili: succede per i brand di lusso (da Vogue a Giorgio Armani) ma anche per i whisky scozzesi, che hanno più o meno tutti lo stesso lettering legato ad un cliché molto riconoscibile. Quindi fino a che non arriverà qualche innovatore “disruptive” nel campo grafico, le cose continueranno così.Anzi, mancherebbe all'appello un altro logo: questa la previsione del blog Oh no Type Co.

 

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