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La sindrome europea del "mercantilismo digitale inverso"

Carlo Alberto Carnevale Maffé

Facebook & Co. lucrano con le (nostre) informazioni, l’Europa regolamenta la “privacy” e pesa su società private e pubbliche

Quando nasce una nuova tecnologia digitale, le startup americane la trasformano in un business miliardario, gli imprenditori cinesi la copiano e la adattano, e la Commissione europea pretende di regolamentarla in ogni minimo dettaglio. In buona fede, ovvio. L’effetto è che mentre il mercato negli Stati Uniti e in Cina raggiunge rapidamente la massa critica con un modello di regolamentazione ex post, molto leggero se non addirittura esplicitamente protezionistico, l’Europa è finora rimasta un mercato frammentato in decine di normative nazionali, spesso incompatibili e contraddittorie, che non hanno consentito il raggiungimento delle economie di scala e di scopo necessarie a renderle competitive su scala globale. L’Europa applica tuttora alla propria economia digitale una bizzarra forma di “mercantilismo digitale inverso”, imponendo alle proprie imprese oneri impropri, sia organizzativi sia finanziari, per il trattamento dei dati che non valgono per i competitor americani o cinesi. La regolamentazione, dunque, diventa una forma di svantaggio competitivo per le imprese europee, che si vedono assoggettate a costi di compliance asimmetrici. Non così per Facebook e i suoi fratelli digitali.

 

Facebook sta alle relazioni sociali come la cartografia sta al territorio. Ci consente di formalizzarle e oggettivizzarle, come la sintassi fa con il linguaggio. E ci permette di sottrarle alle mere percezioni soggettive, e loro di assumere un ruolo economico su più dimensioni. Come le enclosures settecentesche hanno favorito la nascita del capitalismo, rendendo il territorio un bene negoziabile, così sta facendo Facebook con i nostri dati personali e relazionali. Fino a ieri, essi erano soggetti alla “tragedia dei beni comuni”, dispersi e disaggregati: o venivano sfruttati opportunisticamente o rimanevano sostanzialmente indisponibili. Oggi, sono merce di un mercato sempre più liquido ed efficiente: quello dell’attenzione umana. Come Google Maps è piattaforma di indicazioni stradali per raggiungere i luoghi di destinazione, Facebook è sistema di navigazione globale per raggiungere le persone nel loro contesto, la via più breve per la loro attenzione.

 

I social media fanno leva sulle caratteristiche delle nuove piattaforme di interazione sociale per aggregare attenzione umana a basso costo: le adesioni sono volontarie, i contenuti sono autoprodotti, i legami non sono strumentali, i costi di acquisizione e gestione della relazione sono sostenuti collettivamente dal network stesso. E anche qui emerge il “mercantilismo digitale inverso” dell’Unione Europea, in materia di regolamentazione dei rapporti di lavoro. Dalle ricerche su Innocentive, alle recensioni di Amazon, ai widget di Facebook, i social network possono fornire alle imprese opportunità di outsourcing a basso costo dei processi di costruzione e gestione relazionale di una base di stakeholders ad alto potenziale economico, sia come cliente di prodotti e servizi, sia come canale distributivo e di marketing virale, sia come fornitore di contenuti e indicazioni di bisogni, sia come asset da valorizzare tramite comunicazione pubblicitaria. L’Europa, al contrario, dovrebbe cominciare a progettare le condizioni regolatorie per favorire la microimprenditoria su reti digitali, creando lo status di imprenditore digitale, con condizioni semplificate e regime fiscale e amministrativo adeguato. In parole semplici, un click per aprire una partita Iva digitale, senza limiti inferiori di etá, entro perimetri definiti, magari aperto alle cybercurrencies, possibilmente con un meccanismo che garantisca, a certe condizioni, la convertibilità in moneta corrente dei ricavi da reti digitali. Alimentare la partecipazione dell’utente sulla base di un pur piccolo incentivo rappresenta quindi un positivo segnale verso la nuova frontiera economica delle reti digitali.

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