Foto di Christopher Sessums via Flickr

L'apocalisse digitale

Giulio Meotti

A questo confessionale non è ammesso perdono dei peccati. E’ il cyber-stalinismo in grado di annientare anche un premio Nobel. Ecco il nuovo ordine morale che rischia di sovvertire la società liberale

Tim Hunt era un grandissimo premio Nobel della Medicina. Ma è bastato qualche cinguettio per cacciarlo dallo University College di Londra e pure dalla Royal Society, il tempio britannico della conoscenza. Hunt è stato letteralmente annientato per una battuta un po’ infelice sulle colleghe in laboratorio durante una conferenza a Seul (“ti innamori di loro, si innamorano di te e quando le critichi piangono”). Per così poco, una campagna su Twitter ha praticamente fatto fuori la carriera del premio Nobel.

 

Adesso lo Spectator dedica una storia di copertina alla “Inquisizione digitale”. Non è il generico “odio online”, ma l’uso dei social media a fini ideologici come umiliazione e intimidazione pubblica. Hunt non è stato vittima della censura o dell’intimidazione del governo. E’ stato vittima del libero mercato in cui le persone possono scegliere di esprimere le proprie opinioni. Una forma di cyber-stalinismo applicato dagli attori della società civile. “Se non possiamo vivere e lavorare al fianco di persone con le quali non siamo assolutamente d’accordo, siamo finiti come una società liberale”, ha scritto il giornalista americano Andrew Sullivan.

 

Per alcuni tweet sulle donne, Toby Young ha perso il lavoro dal governo inglese e gli incarichi nelle università britanniche

Erika Christakis, docente a Yale di Psicologia infantile, aveva osato lamentarsi che l’università era diventata “un luogo di censura e di divieto” dopo la richiesta degli studenti di bandire i costumi “offensivi” di Halloween. Da allora, sia Erika sia il marito, Nicholas Christakis, anche lui docente a Yale, hanno ricevuto email minacciose e ingiuriose, petizioni di studenti che hanno rifiutato la laurea dalle loro mani, solo pochi colleghi firmano la lettera di solidarietà. Risultato? Erika e Nicholas si sono dimessi.

 

Non appena il professor Paul Griffiths ha letto la circolare di alcuni professori per indire due giornate su “come riconoscere e combattere il razzismo”, il teologo della Duke University ha deciso di scrivere una email ai colleghi: “Questa sessione è illiberale e ha tendenze totalitarie”. Si scatena subito una ondata di indignazione sui social. Il preside, Elaine Heath, prima castiga il teologo: “E’ inappropriato e non professionale fare simili commenti”. Prima Griffiths viene bandito dagli incontri in facoltà, infine è costretto alle dimissioni.

 

Stavolta a cadere vittima della mannaia 2.0 è un giornalista e professore inglese, Toby Young. “Dopo che era stato nominato uno dei quattordici membri dell’Ufficio per gli studenti, la tempesta di Twitter ha assunto una tale forza da risucchiare giornali e politici”, scrive Lara Prendergast sullo Spectator. Young in passato aveva scritto commenti sgradevoli sul seno delle donne. Ma sufficienti per distruggerlo professionalmente.

 

"Il sogno di Internet era di creare una società ancora più aperta. Ma ha prodotto l'effetto opposto: la gente è terrorizzata da quello che dice"

Duecentomila persone avevano pure firmato una petizione che ne chiedeva la testa. “I suoi vecchi tweet sono finiti in discussione in Parlamento. Toby li aveva scritti diciassette anni fa. Ma dopo otto giorni di indignazione, Young si è dimesso”. Il giorno dopo Sir Anthony Seldon, vicecancelliere dell'Università di Buckingham, ha annunciato che anche il posto di Young come “visiting fellow” presso la sua università era “decaduto”. Per colpa di qualche tweet, Young ha perso tre lavori in una settimana. Ci si è aggiunta, infatti, anche l’Università di Buckingham, una delle cinque migliori università private del Regno Unito, che ha interrotto ogni rapporto con il giornalista inglese. E non importa se Young, in trent’anni di carriera, non era mai stato accusato di molestia. Fare una battuta è ormai sufficiente per vedersi rovinare la carriera. Young è solo l’ultimo – e forse quello di più alto profilo – obiettivo di un nuovo fenomeno. “E’ qualcosa che chiunque voglia entrare nella vita pubblica può – e dovrebbe – aspettarsi”. Il tribunale dei social media che emette il giudizio.

 

Siamo stati incoraggiati a essere onesti, a condividere, a scherzare, sempre in nome della libertà. Ma i tweet non invecchiano o muoiono mai: le parole pubblicate anni fa possono essere ripubblicate, fresche come il giorno in cui sono state digitate. “I social media ci hanno ingannato tutti” continua lo Spectator. “Ci hanno indotto a pensare che possiamo abbassare la guardia online e parlare candidamente come a un amico. Ci hanno persuaso a confondere mondi personali e privati in nome della libertà di parola. Siamo stati indotti a pensare che i nostri commenti siano effimeri quando nulla potrebbe essere più lontano dalla verità. Viviamo in un’età del confessionale e siamo incoraggiati a rivelare tutti i nostri pensieri interiori”.

 

Da Dolce & Gabbana a Donna Karan, quegli stilisti che si sono visti minacciare del rogo dei propri abiti a causa di quello che avevano detto

Ma in questo confessionale non c’è perdono dei peccati, ma soltanto la dannazione eterna. “Il sogno di Internet era che il web avrebbe creato una società più aperta. Tutti si sarebbero sentiti più liberi”. Invece è successo il contrario: “Sempre più persone sono nervose per ciò che dicono online per paura di un rimprovero futuro”.

 

Scrive anche il Times: “Twitter sta distruggendo l’idea di redenzione. Stiamo costruendo una spietata cultura pubblica alimentata dalla facilità di creare tempeste su Twitter o indignazione online, in cui le persone che offendono gli altri, commettono errori o si comportano male si trovano condannate, indipendentemente dal contesto”.

 

Il professor Kyle Quinn era nell’Arkansas, a mille chilometri dalla marcia suprematista di Charlottesville in Virginia. Ma Quinn assomigliava molto a uno dei manifestanti. E’ bastato poco che su Twitter si innescasse il tormentone, comprese le minacce di morte e le richieste di licenziamento alla sua università.

 

Anche la scrittrice e attrice americana liberal Lena Dunham è diventata l’obiettivo di un’incredibile quantità di vetriolo sui social, non da parte della destra conservatrice, ma da parte di persone che condividono ampiamente la sua politica di sinistra. Dunham è una femminista, una elettrice democratica e una generosa donatrice per organizzazioni come Planned Parenthood. Ma niente di tutto ciò l’ha protetta dalla rabbia e dalla denuncia per essere “troppo privilegiata”, per aver difeso pubblicamente un amico che era stato accusato da un’attrice di molestie e per un tweet del 2011 in cui parlava di uno stupratore dai tratti “asiatici”. Dunham si era scusata profusamente e aveva detto di aver imparato la lezione. Ma digitando il suo nome su Twitter ciò che emerge è un flusso senza fine di attacchi, “è una razzista”, “difende lo stupro”, “è una sanguisuga” e così via.

 

Justine Sacco è la dirigente di pubbliche relazioni diventata famosa per un tweet che aveva scritto prima di imbarcarsi su un volo da Londra a Città del Capo: “Vado in Africa. Spero di non prendere l’Aids. Sto scherzando. Sono bianca!”. Non appena Sacco è atterrata in Sud Africa, il suo tweet è diventato virale, e l’hashtag di tendenza globale #HasJustineLandedYet seguiva i suoi movimenti auspicando che la sua vita cadesse in rovina. Il suo datore di lavoro l’ha licenziata in tronco il giorno dopo.

 

Jon Ronson, il giornalista britannico autore di “So You Be Been Publicly Shamed”, ha studiato il fenomeno dell’inquisizione digitale paragonandola agli americani delle colonie che avevano la palizzata dove legare il reietto. Hester Prynne di Nathaniel Hawthorne ha dovuto indossare una lettera scarlatta “A”. Oggi c’è lo stigma dei social media.

 

Le scuse e il rimorso sono raramente sufficienti. Sui social media – Twitter in particolare, con la sua portata globale e la sua mancanza di ironia – un avversario ideologico deve essere distrutto. Padre James Martin della rivista cattolica America parla di “una autentica crudeltà che deriva da questa mentalità da mob”. Martin lo paragona ai “bulli in un cortile della scuola che si mettono tutti di fronte a qualcuno che ha detto la cosa sbagliata”.

 

E’ successo a Brendan Eich, programmatore e creatore di una delle lingue universali del web (il Java), amministratore delegato di Mozilla per undici giorni, a causa di mille dollari da lui donati alla campagna in favore del “sì” al referendum della California per vietare i matrimoni omosessuali. “Un reale, complicato, imperfetto essere umano è stato cancellato da migliaia di persone che non lo conoscono ma che ne sanno abbastanza per odiarlo” ha scritto Andrew Sullivan.

 

Quando Dolce & Gabbana hanno osato criticare i “figli sintetici” delle coppie gay, Elton John si è buttato su Twitter per lanciare editti contro di loro. Si è arrivati a invocare il rogo dei loro abiti.

 

Stessa sorte a Donna Karan, la stilista che aveva osato insinuire il dubbio nella campagna su Harvey Weinstein. Sui social sono partite richieste di bruciare e boicottare i suoi abiti. Sempre su Twitter è partita la campagna della “tirannia del flash mob” contro Guido Barilla, che per riparare all’accusa infamante di sostenere la famiglia tradizionale, si è adeguato ai tempi del relativismo inteso come assoluto, chiedendo scusa, cospargendosi la testa di cenere. Chirlane McCray, sposata al sindaco di New York Bill Blasio, aveva postato su Twitter una sua foto al supermercato mentre boicottava la Barilla per un altro produttore di pasta.

 

Lo scienziato Matt Taylor, il fisico britannico che ha contribuito alla missione spaziale Rosetta, durante una conferenza aveva indossato una camicia con immagini di alcune pin-up. Ha chiesto scusa. In lacrime. Dopo una fitta campagna di riprovazione pubblica via social.

 

Il filosofo di Oxford Jeffrey Ketland ha scritto che la gogna ideologica 2.0 amplifica il proprio potere o la propria forza in tre modi. Innanzitutto, usa i social media come forma di reclutamento per procura; in secondo luogo, cerca deliberatamente il potere istituzionale nelle università, nei dipartimenti delle risorse umane aziendali e nei sindacati; in terzo luogo, genera l’oltraggio emotivo e moralistico. Inoltre, i normali vincoli liberali che proteggono da sempre le persone contro i mob – accuratezza delle prove, nozioni di giustizia individuale e correttezza procedurale – sono stati resi irrilevanti. E’ durato poco l’anonimato dell’ingegnere di Google James Damore, reo di aver diffuso un manifesto contro la “cassa di risonanza ideologica” della Silicon Valley. Alla fine, l’ingegnere è stato licenziato dopo una caccia al reprobo che nella piattaforma interna aveva osato rendere virale questo memo.

 

Dall'ingegnere di Google "misogino" alla scrittrice "razzista" Joyce Carol Oates. E'il tribunale dei benpensanti

A una delle “signore” della letteratura americana, Joyce Carol Oates, è bastata su Twitter l’allusione all’islam per incassare sui social le peggiori accuse di razzismo: “Dove l’abuso sessuale e lo stupro è epidemico – Egitto – viene naturale domandarsi: qual è la religione dominante?”. E ancora: “Com’è possibile che la ‘cultura dello supro’ non abbia legami con la ‘cultura religiosa’? La religione non ha effetto alcuno sul comportamento? Possibile?”. Le hanno dato di razzista, si è chiesto di ritirarle la laurea honoris causa e di bandirla dall’olimpo dei libri.

 

Si va così formando quello che il settimanale francese Valeurs Actuelles questa settimana in una storia di copertina ha chiamato “il tribunale dei benpensanti”. E’ formato da femministe, gruppi antirazzisti, associazioni pro-migranti, islamogoscisti, teorici del gender, vegani, magistratura militante. Mirano a instaurare un “nuovo ordine morale” e la “dittatura dell’eufemismo”, in cui ai reietti messi nell’angolo si danno soltanto due alternative: l’autocensura o la censura coatta.

 

E’ la prima volta nella storia che su scala così ampia si ha il potere di nuocere al prossimo e di abbatterne le idee con tanta leggerezza.

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  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.