Sei innamorato del tuo telefono?
Un test del New York Times e la teoria della dipendenza che non tiene conto della realtà. E delle persone noiose
Secondo il test del New York Times, io devo rivolgermi a uno psichiatra. A un centro specializzato nel recupero delle dipendenze, almeno per un consulto. Il test è composto da quindici domande e viene richiesta la massima sincerità; io a ogni domanda ho risposto sinceramente: sì. Lo scopo del test è capire se “are you in love with your phone?”, se sei innamorato e quindi addicted e quindi malato e quindi guastato dai tempi. Avrei potuto barare almeno un pochino, invece ho risposto sempre sì: se ritieni di passare più tempo con il tuo telefono di quanto tu stesso percepisci, se a volte ti sembra che questo tempo stia crescendo, se dormi con il telefono vicino al letto, se trovi naturale controllare i messaggi, le email, i tweet anche mentre stai facendo altre cose, se ti senti a disagio quando dimentichi il telefono in auto o a casa, quando non c’è campo o quando il telefono è rotto (per completezza avrei aggiunto: quando è al dodici per cento e non c’è modo di ricaricarlo), e se quando il tuo telefono suona, vibra, magari non vicinissimo a te, tu provi l’impulso e l’urgenza di alzarti e controllare le notifiche, i messaggi, insomma se senti il bisogno di prenderlo in mano, di scoprire che cos’è successo, anche solo di stabilire un contatto fisico.
Per consolare gli amanti dei loro telefoni potrei dire che molte persone provano l’impulso di controllare anche le notifiche altrui, e quando sentono il suono di un WhatsApp allungano il braccio come per un riflesso condizionato verso qualunque telefono, vorrebbero strapparlo di mano a colleghi, sconosciuti, passanti, nemici, bambini, ma non è questo il punto. E anzi, il New York Times si spinge a consigliare di non chiedere mai a una moglie (a un marito): ami di più me o il tuo telefono?, perché non bisogna fare domande di cui non si vuole sentire la risposta, e perché il telefono sul tavolo, durante la cena, accanto al tovagliolo, non è mai un bel segno. Ma se la sincerità richiede di rispondere “Sì” alla domanda: pensi di controllare il tuo telefono molte volte al giorno anche quando sai che non c’è niente di nuovo o di importante da vedere, allora per sincerità bisogna anche ribellarsi a domande maliziose, fatte da qualcuno appena arrivato sulla terra da Marte. Se abbiamo un rapporto intimo con i nostri telefoni, perché i nostri telefoni ci dicono che tempo fa, che percorso dobbiamo fare per arrivare in quel posto, che ora è, di chi è il compleanno il ventiquattro maggio, quanti chilometri a piedi abbiamo fatto ieri, a quanti anni è morto Francis Scott Fitzgerald, e se i telefoni ci permettono di parlare con i nostri amici, con i familiari, di leggere i giornali, di conservare le foto, di pubblicarle, di prendere appuntamenti, di innamorarci e di lasciarci, di svegliarci la mattina, di avere lì dentro una libreria, di guardare un film aguzzando la vista, non si può chiamare droga, visto che è vita. Non può essere un comportamento compulsivo, se spesso i telefoni offrono anche vie di fuga, scuse e conversazioni più interessanti di quelle con chi si è seduto di fronte a noi, in carne e ossa, e pretende di spiegarci il mondo dei finanziamenti a tasso agevolato o dei vini barricati. Quindi il consiglio che danno tutti gli esperti di dipendenze: butta via quel telefono, spegnilo, chiudilo in una stanza, non ricaricarlo, guarda negli occhi le persone, ascolta il battito dell’universo, ha senso solo di fronte allo sforzo collettivo di non essere terribilmente noiosi, recriminatori, petulanti. Altrimenti torneremo sempre dal nostro vero grande amore.
Cose dai nostri schermi