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Uber inventa le fake donne per aumentare la produttività dei suoi autisti

Simonetta Sciandivasci

La colpa è dell'immaginario collettivo che considera le donne più affidabili, disponibili, collaborative e dedite al lavoro? Le tecniche dell'azienda americana e il peso della scienza del comportamento nelle scelte dei grandi gruppi

Negli Stati Uniti i tassisti non fanno come in Italia, ma Uber ha anche lì i suoi problemi. Nelle ultime settimane si è parlato parecchio delle molestie denunciate, lo scorso febbraio, da una ex dipendente dell’azienda, l’ingegnere Susan Fowler, inascoltata dall'azienda quando ha segnalato che il suo capo aveva iniziato a mandarle messaggi sconci appena dopo l’assunzione. Pochi giorni fa, una lunga inchiesta del New York Times sulle manipolazioni e i trucchetti psicologici e parapsicologici che l'azienda perpetrerebbe sui dipendenti (e nello specifico sui driver, cioè i guidatori) per aumentarne la produttività, ha svelato un particolare piuttosto grottesco e, alla luce del precedente caso di sessismo (che ne ha, peraltro, scoperchiati molti altri), anche decisamente beffardo: molti local manager di Uber si fingono donne per ottenere migliori prestazioni dai driver. Prima di vedere come, facciamo un passo indietro.

 

Uber è l'esempio perfetto di disintermediazione unita alla gig economy, cioè l'economia dei lavoretti, come l'ha battezzata due anni fa il Guardian, che subito si premurò di lanciare l'allerta: se da una parte avrebbe facilitato l'innovazione e gli imprenditori, dall'altra avrebbe potuto anche defalcare i diritti e la tutela dei lavoratori. La maggior parte dei driver svolgono altri mestieri e ricorrono a Uber per arrotondare (per loro è, appunto, un lavoretto), ma anche quando hanno un rapporto più continuativo con l'azienda non sottostanno ad alcun vincolo di prestazione: scelgono dove e quando effettuare le corse. Praticamente, sono freelance. Questo garantisce all'azienda di minimizzare il costo del lavoro, ma comporta anche che il servizio non sia sempre garantito in maniera efficiente e veloce e che parte delle richieste degli utenti rimangano inevase. In più, ai guidatori (che trattengono tutto l'onorario tranne il 25 per cento che va a Uber) conviene che permanga una certa carenza del servizio, in modo da poter alzare il prezzo delle corse e, quindi, farne di meno. Dal canto suo, legittimamente, l'azienda vuole coprire la domanda e porsi come soggetto leader nel mercato del trasporto privato di persone: per farlo, non ha altra strada che invogliare i suoi dipendenti a lavorare di più. I vertici di Uber, ormai da diverso tempo, non solo indicano ai local manager come indirizzare i driver, ma li esortano a sperimentare strategie di convincimento.

 

Il NYTimes riporta il caso di John P. Parker, che dal 2014 al 2015 ha controllato l'area di Dallas e che comunicava con i driver fingendosi una donna, Laura, che consigliava loro in quali zone dirigersi per trovare più corse (segnalando, per esempio, un aumento dell'affluenza di persone in prossimità di concerti o grossi eventi; indicando nuove possibilità di guadagno; complimentandosi per i risultati raggiunti e suggerendo di migliorarli ancora e ancora, dai, un'altra corsetta in più e porti a casa 300 dollari!). Parker ha rilevato immediatamente che nella sua zona c'erano più driver maschi e che erano più disponibili a lavorare e aumentare il tempo di servizio, per compiacere un capo che si illudevano fosse femmina.

 

Fa notare Christina Cauterucci di Slate che molte aziende e start up tecnologiche impiegano voci femminili registrate per i servizi di assistenza digitale (basti pensare a Siri, la simpatica factotum dell'i-Phone che trova indirizzi, ricorda appuntamenti, avvia il navigatore e sa anche cantare), ritenendo che nell'immaginario collettivo (meglio: bias) le donne sono più affidabili, disponibili, collaborative, dedite: insomma, segretarie perfette.

 

Nell'occhiello dell'inchiesta del New York Times compare la "behavioral science", la scienza del comportamento, dalla quale si è originata, negli anni, l’economia comportamentale, che siamo abituati a credere sia rivolta essenzialmente ai consumatori e meno ai dipendenti: errore. I big data, gli algoritmi, il bias e in generale tutte le informazioni su gusti, tendenze, reazioni delle persone sono impiegati dalle aziende anche per studiare la maniera migliore per affezionare i dipendenti al proprio posto di lavoro: al tema, Ryal Calo e Alex Rosenblat dell'Università di Washington hanno dedicato un paper, pubblicato a marzo, dove i soggetti di studio sono proprio Uber e Airbnb. Oltre a invitanti signorine fake, Uber utilizza il "ludic loop", mutuato dai videogiochi. I principi della gamification (l'uso di metodi ed elementi propri di giochi e game design, ha tre scopi: fidelizzare, reclutare, risolvere problemi) ispirano quelli che molte imprese pongono come regolatori dei rapporti con i propri dipendenti, in particolare nella Silicon Valley. Così come per lasciare un adolescente incollato ad Assassin's Creed gli si propone, alla fine di ogni livello, il punteggio che ha raggiunto, in modo da indurlo alla sfida successiva, anche i guidatori di Uber hanno sui loro touch screen la somma di quello che hanno conseguito.

 

Il Times riporta la testimonianza di un veterano autista di Uber nella zona di Chicago che dichiara di aver dovuto addirittura combattere contro l'adrenalinica voglia di sommare record a record, tutte le volte che dava un'occhiata ai suoi dati. Dal momento che gli autisti di Uber non sono propriamente dipendenti, bensì appaltatori, le strategie di gamification non sono regolabili dalla legge: ai possibili abusi che ne potrebbero derivare - o già ne derivano -, Kevin Werbach, professore di business segnalato dal Times, ha dedicato le sue ultime ricerche. A suo parere, la gamification può essere un ottimo motore per la gig economy ma per il resto è un modo di ottenere lavoro facendolo sembrare non propriamente lavoro, peraltro sottopagandolo. Uber, tuttavia, sa molto bene che l'attenzione sulla tutela dei lavoratori è alta e sta già cercando di correre ai ripari. L'affaire sessismo, durissimo colpo all'immagine di una società giovane che dovrebbe essere ontologicamente immune a certi vizietti, è passata al vaglio del CEO Travis Kalanick, che ha ordinato una indagine approfondita sul gender gap nei posti dirigenziali. Sempre Slate faceva notare poco tempo fa che il settore tech è assai poco accogliente per le donne: il 19 per cento del personale di Google è composto da donne, quattro punti in più delle dipendenti di Uber. E questo a dispetto delle politiche di welfare woman friendly. Assai più complesso sarà, invece, per Uber, risolvere il disagio che molti lavoratori hanno cominciato a denunciare e che rischia di assimilare l'azienda a paranoiche e apocalittiche visioni distopiche.

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