foto Christian Schnettelker via Flickr

Ci toccherà la tecnoburocrazia?

Michele Masneri
Abbiamo conquistato le startup senza notaio ma ora ci aspetta un mondo di startup col commercialista.

Abbiamo conquistato le startup senza notaio ma ci aspetta un mondo di startup col commercialista. Ne è convinto Giampaolo Marcoz, giovane e agguerrito membro del Consiglio nazionale del Notariato. Perché in realtà dal 20 luglio, dopo l’approvazione del cosiddetto Investment Compact, l’idea che chiunque si possa aprire la sua società online, senza bisogno di nessuno, è bella ma è abbastanza fuffa.

 

“E’ solo teoria”, dice Marcoz al Foglio. “Provateci. Sul sito del registro delle Imprese devi leggerti e studiare uno statuto di diciassette pagine, con questioni che il comune cittadino non può sapere. Ti chiedono cose tipo: ‘vuoi il diritto di prelazione nel caso di cessione delle quote societarie? Vuoi introdurre un patto di co-vendita?’”. E cos’è la co-vendita? “Appunto. E’ chiaro che allora servirà un altro consulente. Che potrà essere un commercialista o un avvocato esperto di diritto commerciale, e va benissimo, per carità, però diciamolo chiaramente che da soli è impossibile”.

 

Però almeno si risparmia. “Non direi proprio, i risparmi che qualcuno ha indicato, tra i mille e i tremila euro, sono del tutto fantasiosi, anche perché non essendoci più le tariffe professionali dipende da professionista a professionista. Mentre al contrario noi siamo i più veloci: a differenza degli altri, il notaio ha un sistema telematico che dialoga direttamente – e siamo gli unici – col registro delle Imprese, in modo da risparmiare tempo, noi in un pomeriggio facciamo l’atto e registriamo direttamente”. E’ chiaro, lo dite solo per scoraggiare i possibili “privatisti” della startup. “No, guardi, lo dicono loro stessi. C’è il caso della catanese Getax srl, che ha ammesso di voler essere proprio ‘la prima startup italiana senza notai’”. Però è fatta da un commercialista, il fratello del fondatore o “founder”. Insomma, startup all’italiana.

 

“Come si è letto sui giornali, questa startup ha trovato molte difficoltà, e ha perso una settimana, cito testualmente, con l’Agenzia delle Entrate ed è ancora impelagata col registro delle Imprese, e non ne viene fuori”. Insomma, aridatece il notaio? “Noi facciamo tre cose: creiamo lo statuto, procediamo alla iscrizione alle camere di Commercio, soprattutto facciamo una serie di controlli di legalità che né i commercialisti né gli avvocati né tantomeno la startup fai da te prevedono”. Prendi tre e paghi uno. “Si è deciso di spacchettare la nostra professionalità tra diversi soggetti, va benissimo, però non parliamo di efficienza, allora. E’ solo una mossa demagogica. Si è scelto di appesantire le camere di Commercio che ora devono fare tutto il lavoro e sono già totalmente ingolfate, come dimostra il caso di Catania. I dati per ora non ci sono, però fino a giugno le startup col notaio sono state poco meno di seimila. Vedremo quelle fai da te a che cifra arriveranno”.

 

Avete anche fatto ricorso al Tar contro le startup senza notaio. Ritirandolo. “Anche qui è del tutto falso: un conto è il nostro giudizio politico sulla questione, un conto il profilo giuridico, che secondo noi va corretto. E su questo non voglio scendere in tecnicismi, ma sia chiaro che noi non facciamo assolutamente marcia indietro, anzi il processo va avanti, ricomincia col nuovo anno. Abbiamo ritirato la sospensiva semplicemente su invito del presidente del Tribunale che riteneva la causa matura per essere decisa nel merito”. Avete addirittura ventilato l’ipotesi che la mafia mettesse su le sue startup. “Senza notaio, con questa riforma, il controllo di legalità non lo fa più nessuno. Noi controlliamo chi sono i veri titolari, i veri soci, andiamo a fondo. Se preferiamo che ci siano in giro società di comodo sul modello delle Ltd inglesi, che diventano il principale modello delle compagnie offshore tipo Panama Papers, facciamo pure. Ma non mi sembra un grande passo avanti”.

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