(foto LaPresse)

Contro la robotfobia

Francesco Seghezzi
La paura della tecnologia che “ruba” lavoro all’uomo è smodata. La nuova analisi controcorrente di David Autor, professore del Mit, il quale sostiene che la tecnologia avrà sì un impatto forte su molti lavori ma non in chiave di sostituzione, piuttosto di complementarietà.

Che vi sia un rapporto stretto tra tecnologia e lavoro non è una novità. Invenzioni, nuove scoperte ed evoluzioni dei sistemi produttivi hanno da sempre un impatto forte sulla vita dei lavoratori e sull’intero mercato del lavoro. Nella storia abbiamo assistito a diversi periodi in cui il tema viveva momenti di escalation d’interesse, soprattutto durante le trasformazioni più evidenti, e il nostro tempo è uno di questi. Non passa giorno senza che la consapevolezza dei cambiamenti in atto si trasformi in allarmismo, alimentato da previsioni di dubbio rigore scientifico sui milioni di posti di lavoro che si volatilizzeranno nel futuro breve. E non parliamo solo di report di gruppi privati che hanno vantaggi nell’offrire scenari apocalittici per poi proporne congiuntamente soluzioni da loro offerte, ma anche di istituzioni internazionali.

 

Di certo il rischio c’è, così come c’era in passato ma con l’aggravante di una velocità della tecnologia alla quale i sistemi sociali e giuridici faticano a stare al passo, e anche di essere catapultati nel suo flusso inarrestabile piuttosto che controllarlo. Ma esistono anche scenari positivi, dall’impatto mediatico meno forte, ma forse dalle basi scientifiche più solide. Recentemente l’Ocse ha pubblicato uno studio in cui analizzando non unicamente le singole mansioni che possono essere automatizzate ma l’intero posto di lavoro del lavoratore arriva a sostenere che solo il 9 per cento dei lavori potrebbe essere totalmente sostituito dalle macchine in 21 paesi Ocse, a differenza di un noto studio di Oxford che parla del 47 per cento dei lavori automatizzabili negli Stati Uniti. Ci sono altre analisi che sfidano quest’ultima visione pessimistica.


David Autor, professore del Mit – la stessa università che ha pubblicato diversi testi particolarmente pessimistici – offre una analisi interessante e controcorrente. Sostiene che la tecnologia avrà sì un impatto forte su molti lavori ma non in chiave di sostituzione, piuttosto di complementarietà. I lavori più difficilmente automatizzabili sono infatti quelli che richiedono competenze “tacite” quali flessibilità, giudizio e common sense. Si tratta di professionisti o tecnici per i quali si richiede intuizione, persuasione, capacità di risolvere problemi. Lavoratori per i quali la tecnologia non dovrebbe essere un incubo ma un vantaggio, perché consente di velocizzare e rendere più semplici tutte le mansioni routinarie e di ampliare servizi e offerte in quelle attività, spesso più redditizie e connesse a elevati tassi di produttività, per le quali prima non si aveva tempo. Un esempio sono gli spazi di business che si aprono per l’Industria 4.0 una volta automatizzati alcuni processi produttivi.

 

La tecnologia per Autor quindi non porterà nel lungo periodo alla distruzione di quei posti di lavoro della cosiddetta classe media: la polarizzazione tra lavori alti e lavori bassi potrebbe essere affievolita proprio dall’innovazione stessa. Ne è esempio l’insieme dei lavori tecnici in ambito medico, che stanno producendo un numero sempre crescente di occupati. Questi sono possibili unicamente grazie allo sviluppo di nuove tecnologie, che hanno bisogno dell’uomo per essere utilizzate, per esempio nuovi strumenti di analisi, di radiografia, di assistenza. Certo, non si può pensare che tutto andrà per il meglio se non si governa il fenomeno e la trasformazione in corso. Ma governare non vuol dire per forza tentare di fermare il cambiamento, rinverdendo tradizioni luddiste, ma accettarlo orientando di conseguenza i sistemi formativi. In sintesi, un po’ di allarmismo in meno e un po’ di coscienza in più del fatto che in fondo la tecnologia la crea l’uomo e non, almeno a oggi, il contrario.

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