Cosa c'è dietro il successo di Instagram?

Federico Tarquini
Instagram ha annunciato di aver raggiunto 400 milioni di utenti lasciandosi dietro Twitter, con i suoi 316 milioni di iscritti. Sul tema del rapporto tra immagini e media digitali pubblichiamo un saggio di Federico Tarquini, Docente di Culture digitali all'università di Viterbo (il saggio è uscito qualche settimana fa sul numero 84 del magazine inglese Tafter Journal)
Instagram, servizio di condivisione delle foto comprato da Facebook nel 2012, ha annunciato di aver raggiunto 400 milioni di utenti lasciandosi dietro Twitter, con i suoi 316 milioni di iscritti. Sul tema rapporto tra immagini e media digitali pubblichiamo un saggio di Federico Tarquini, Docente di Culture digitali all'università di Viterbo (il saggio è uscito qualche settimana fa sul numero 84 del magazine Tafter Journal)

 

 

La quantità di immagini prodotte e veicolate dai media digitali ogni singolo secondo di ogni qualsiasi giornata rappresenta ormai, vista la sua incredibile portata, un fenomeno praticamente impossibile da misurare, più o meno come il contare i granelli di sabbia di un deserto. Al dato numerico-quantitativo, che certamente suscita interesse, è necessario associare un’ulteriore riflessione sul significato crescente, per il soggetto e per la collettività, di queste pratiche sociali di produzione e condivisione di immagini. Tale avvertenza vale in primo luogo come veloce fotografia dell’esistente. Molti report dei più importanti istituti di ricerca ci raccontano il crescente numero di immagini “uplodate" e condivise sui social network (Nielsen, Ericson Consumer Lab, etc.). Raccontandoci il “quanto” di una data percentuale tali report sottintendono, più o meno volontariamente, il “come” il dato analizzato si manifesti nei contesti sociali. E’ questo come, ovvero la natura mediale dell’immagine digitale contemporanea, a sollevare oggi molti interrogativi e a suscitare interessi di ricerca. La crescita produttiva delle immagini favorita dalla smaterializzazione dei supporti non appare solamente come un mero dato quantitativo, bensì indica la crescita di attività e processi culturali, comunicativi e sociali sempre più rilevanti: prodotto e azione insieme.

 

E’ dunque necessario procedere su questo doppio binario riproponendo, forse in maniera paradossale, il vecchio adagio di Walter Benjamin della quantità che si fa qualità.  E’ bene però precisare, per non banalizzare, che alcuni dei significati sociali che ascriviamo all’immagine, così come la sua natura tencologico-meccanica e la sua abbondante presenza nella dimensione pubblica e in quella privata, sono da almeno un secolo e mezzo stabili nella cultura occidentale. Come ci ricorda Giovanni Fiorentino: “A metà dell’Ottocento sono ormai determinate le condizioni storiche e materiali per vedere l’ingresso sulla scena sociale, politica e culturale della massa, del consumatore moderno, del mondo delle merci e delle merci fatte immagine”. (Fiorentino 2007: P.25). L’immagine, dalla diffusione degli apparati fotografici in poi, abita, come sappiamo, il nostro quotidiano in una maniera sorprendente, talmente straordinaria da spingerci a porre il principale problema teorico che vorremmo affrontare: l’immagine, dopo la lettera e la parola, è oggi l’elemento cardine della “grammatica” della nostra conoscenza? Per rispondere, almeno sommariamente, a un simile quesito è necessario guardare all’oggetto del nostro contributo – l’esperienza dell’immagine nei social network – confortati dal pensiero di alcuni tra i più importanti teorici degli studi mediologici e culturali.

 

L’importanza del “vedere” nella cultura occidentale ha un’origine precedente rispetto alla massiva diffusione di dispositivi digitali e alle pratiche produttive e distributive d’immagini da essi favorite. L’origine di questa storia è appunto l’Ottocento e i processi di metropolizzazione che in esso sono fioriti. L’affermarsi della metropoli come modello urbano ha storicamente modificato alla radice le dimensioni dello spazio e del tempo, spezzando di conseguenza la continuità esistente nei modelli urbani premetropolitani tra ambiente sociale e individuo. Le risultanze di questo processo hanno indotto una messa in valore delle capacità intellettive della persona, tra cui in primo luogo il vedere, fondamentale per ricostruire il senso del proprio quotidiano. In quella stagione apparve evidente, principalmente ad autori dalla spiccata sensibilità intellettuale come Georg Simmel, che l’abitante della metropoli – per difendersi dal costante flusso di sollecitazioni e immagini incontrate “a ogni attraversamento della strada” – reagisca principalmente con il suo intelletto, a differenza di quanto accadeva nella città premetropolitana ove la percezione del mondo circostante sembrava chiamare in causa principalmente, se così possiamo dire, la “sentimentalità”. L’individuo, per non essere schiacciato da quest’abbondanza di stimoli e immagini, è costretto a ridurre la portata emotiva dei fenomeni che si manifestano al suo sguardo, la loro capacità di toccare le corde del sentimento umano, operando una distinzione tra ciò che è importante per la propria vita soggettiva e ciò che scorre in maniera indifferenziata nel suo orizzonte (Simmel 1995).

 

Il senso della vista durante l’epoca in questione divenne il principale metodo di comprensione, e dunque di conoscenza, del mondo che in ogni momento avvolgeva il soggetto metropolitano.  Possiamo allora facilmente cogliere il nesso profondo tra l’atto del vedere, la forma di conoscenza che ne deriva, e le caratteristiche tipiche delle metropoli europee di epoca moderna. Dai monumenti alla toponomastica, sino ai grandi boulevard – ossia dagli aspetti più densi di significazioni simboliche, ai semplici strumenti per l’orientamento – l’aspetto visivo qualifica in modo profondo e decisivo l’organizzazione della metropoli, così come le sue forme di esperienza derivata. Potremmo dire: la sua forma estetica. L’uomo della metropoli con la sua vista seziona, distingue, nota i dettagli, traccia percorsi. Ricostruisce l’universo di senso del suo esistere e del mondo che lo circonda con il suo punto di vista. Le condizioni antropologiche per lo sviluppo dell’immagine meccanizzata (fotografia) e dell’immagine cinetica (cinema, televisione) sono dunque già esistenti prima ancora dell’avvento dell’industria culturale novecentesca. L’oggettività dell’immagine è ormai fondamentale per il compimento della soggettività dell’uomo. “L’esperienza della metropoli appare troppo densa, variegata e caleindoscopica perché la si possa vivere solamente come attore, ed è per questo che l’esistenza soggettiva si dilata e si dissemina fino a duplicarsi nella condizione del blasé, dell’essere spettatore” (Borrelli 2010: p.35).

 

Essere spettatore è dunque una condizione, forse la condizione, tipica dell’esperienza metropolitana, e pertanto uno dei fondamenti dell’evoluzione dell’industria culturale novecentesca, così fortemente incentrata sull’immagine, e sul desiderio collettivo di vivere attraverso quest’ultima l’altrove della metropoli (Abruzzese 1995, Fiorentino 2007).

 

L’atto del vedere, ovvero l’esperienza dell’immagine, ai tempi dell’industria culturale novecentesca si dispone come fattore connotativo di una data connotazione umana. Il cittadino è al tempo stesso un viuer, così come il consumatore è contemporaneamente pubblico spettatore. Scriveva McLuhan nel famoso testo “Il medium è il massaggio” del 1967: “I mezzi di comunicazione, alterando l’ambiente, evocano in noi sintesi uniche di percezioni sensoriali. L’estensione di un qualsiasi senso altera il modo in cui pensiamo e agiamo, il modo in cui percepiamo il mondo. Quando questi rapporti cambiano, cambiano gli uomini”.

 

Nello sviluppo della metropoli moderna appare con evidenza quanto ambiente, media e individuo siano in stretta relazione. A un livello ulteriore d’indagine è possibile affermare quanto i media moderni siano al contempo anche dei fattori decisivi per il mutamento sociale, culturale ed economico che l’occidente ha conosciuto negli ultimi due secoli. La citazione di Marshall McLuhan chiarifica quanto sia fondamentale saldare lo studio del mutamento sociale e culturale a quello del significato, nei campi appena citati, dei media, dei dispositivi mediali e delle pratiche comunicative ad essi correlate. Come vediamo, McLuhan sottolinea, differentemente rispetto al grosso dei suoi contemporanei, quanto il mutamento sociale e culturale di cui stiamo discutendo si verifichi in virtù di un più profondo mutamento, favorito dai media, nelle capacità percettive e conoscitive del soggetto. E’ per questo che: “Uno studio dei media, per essere valido, non deve trattare unicamente il contenuto dei media ma deve occuparsi dei media stessi e della globalità dell’ambiente culturale entro cui i media funzionano” (McLuhan 1969).
Quella del critico canadese è un’indagine che parte dal basso, dal singolo momento in cui l’individuo legge un libro o vede un film, per poi risalire verso una dimensione generale in cui l’esperienza, e perciò le forme di coscienza e conoscenza, vengono a strutturarsi in ragione della porzione di uomo che viene sollecitata. I due elementi presi in esame, medium e ambiente culturale, nella letteratura mcluhaniana sembrano spesso confondersi, lasciando spazio a un’interpretazione del suo pensiero che vede appunto nel dispositivo di comunicazione e rappresentazione lo spazio entro il quale la vita si esprime (Abruzzese). La storia dei media dovrebbe allora essere paragonata alla “storia delle nazioni”, ossia posta come presupposto ed elemento scatenante di una specifica declinazione delle discipline storiche. McLuhan puntualizza, nella famosa intervista a Playboy da cui è tratta la citazione ora riportata, che un corretto studio dei media deve tenere in considerazione il rapporto d’influenza che esiste tra la tecnologia, l’ambiente culturale e l’uomo. In questa direzione ci viene offerta una lettura dei media che possiamo considerare anche una plausibile opzione d’interpretazione del tempo storico. Così, se è vero che un dato medium può essere percepito come l’ambiente entro cui i soggetti risiedono, è credibile che le nostre forme conoscitive finiscano per conformarsi alle qualità di questo stesso spazio, stabilendo di conseguenza anche la misura della nostra comprensione storica. La storia sembra darsi nella forma del medium e attraverso esso può essere concepita.

 

Fin qui abbiamo cercato di ripercorre gli aspetti di continuità che hanno traghettato l’immagine analogica e i suoi significati sociali sino al tempo presente. Lo sviluppo della metropoli e le sue forme esperienziali, l’affermazione e la diffusione dei dispositivi fotografici con i loro usi sociali ed economici, l’avvento della pubblicità, del cinema e della tv, tutto ciò ha velocemente garantito all’immagine l’assoluta centralità che oggi quest’ultima ricopre nel nostro quotidiano. Allo stesso modo, con McLuhan, abbiamo visto quanto le caratteristiche del medium, entrando in contatto con i sensi dell’uomo, favoriscano processi di mutamento sociali, culturali ed economici, ma soprattutto fenomeni trasformativi delle strutture percettive e conoscitive dell’individuo. Sulla superficie dell’immagine è dunque possibile rintracciare e ricostruire i processi sottesi a quanto sin qui osservato. È però altrettanto urgente, ai fini della nostra riflessione, introdurre un altro elemento correlato all’immagine e alla sua crescente importanza. Lo facciamo attraverso le parole di Walter Benjamin: “L'indice storico delle immagini dice, infatti, non solo che esse appartengono a un'epoca determinata, ma soprattutto che esse giungono a leggibilità solo in un'epoca determinata. E precisamente questo giungere a leggibilità è un determinato punto critico del loro intimo movimento. Ogni presente è determinato da quelle immagini che gli sono sincrone: ogni adesso è l'adesso di una determinata conoscibilità” (Benjamin 1999: P. 463). I concetti contenuti in queste poche righe, come spesso accade con Benjamin, permettono numerose vie di fuga all’avanzamento teorico di questo contributo. L’immagine, come vediamo, è un elemento cardinale per la comprensione dell’incedere della storia. Lo è però con la forza del suo carattere di unicità e discontinuità. Benjamin, scrivendo questo meraviglioso passo, ha probabilmente in testa il dispositivo fotografico. Grazie alla fotografia la sincronia tra il presente e le immagini si fissa per la prima volta nella storia in una determinata forma reificata, in oggetto. Pertanto l’immagine fotografica può giungere a leggibilità nello specifico periodo storico della modernità occidentale, ovvero nella società e nelle condizioni economico-culturali che abbiamo descritto nei precedenti paragrafi. Con la tecnologia fotografica giunge a leggibilità l’epoca della metropoli con le sue forme esperienziali, e ciò avviene appunto sulla superficie del supporto fisico dell’immagine fotografica.

 

Seguendo il ragionamento di Benjamin possiamo comprendere quanto il termine di un percorso conoscitivo sia il risultato di un processo che si sviluppa intorno all’esperienza che noi facciamo dei prodotti mediali, in questo caso dell’immagine fotografica. Come abbiamo visto però, tale processo non avanza in forma lineare, né tanto meno in virtù di rapporti rigidi di causa effetto. Le esperienze pregresse creano le condizioni per la nascita e lo sviluppo di un dato medium tecnologico e, al tempo stesso, l’incontro con la natura mediale dei sui prodotti – l’immagine fotografica – ridisegna i connotati delle forme esperienziali che presiedono e compongono qualsiasi processo conoscitivo. In altre parole: “L’esperienza moderna è la presenza immediata di una percezione nella coscienza del soggetto, che si realizza in un una forma unica e irripetibile, e tuttavia dipendente dall’immersione del soggetto stesso in un mondo di significati storici[…] è la “cosa” percepita e insieme il “significato” che essa assume nel rapporto con colui che la percepisce” (Jedloswki 1996: P. 64).

 

[**Video_box_2**]Nell’incontro con la fotografia esperienza e conoscenza si modificano. “Cosa” e “significato” si fondono con “colui che percepisce” determinando una forma temporanea di esperienza. La

 

fotografia segna una discontinuità ineludibile nella storia dell’esperienza dell’immagine, i nostri processi conoscitivi non possono che uscirne modificati. Tutto ciò è stato ampiamente dimostrato da numerosi studi sul significato sociale della fotografia analogica (Benjamin 2000, Barthes 1994, Fiorentino 2007, Rafele 2010, Sontag 1978). A questo è necessario mettere alla prova le teorie evocate sin qui con l’immagine prodotta digitalmente.

 

In apertura del nostro contributo abbiamo segnalato quanto la produzione e la distribuzione di immagini da parte dei singoli individui sia diventata un fenomeno di grande rilevanza, quantitativa e qualitativa. Per milioni di persone è ormai normale scattare fotografie con il proprio dispositivo digitale connesso per poi immediatamente condividerle sui propri profili facebook o twitter. Ancor più di senso comune è divenuta il semplice “immortalamento” di una qualsiasi vicenda, o di un qualsiasi attimo per mezzo della fotografia digitale. In tal senso il fenomeno dei selfie è quanto mai indicativo.

 

L’esplosione quantitativa di immagini che circolano in rete è pertanto un fenomeno di assoluto interesse per la ricerca contemporanea. È tuttavia sbagliato accostarsi a tale oggetto di ricerca con lo spirito del “censore delle novità” o peggio ancora con quello del “guardiano delle tradizioni”. Una ricerca priva di pregiudizi, se mai possa esistere, deve saper cogliere nella natura dell’immagine digitale gli elementi di rottura e contemporaneamente quelli di continuità con il passato. Nelle immagini presenti dentro i social network, ad esempio, non assistiamo ad un trasformazione drastica dei significati sociali della fotografia. Questo straordinario medium continua a creare l’adesso della conoscibilità sulla superficie dei propri prodotti. Il contenuto della fotografia, in altre parole, non sembra esser stato radicalmente modificato. Non fosse altro perché il contenuto della fotografia è il presente del mondo. Il digitale è al contrario una modificazione radicale del medium che in virtù di nuove condizioni di possibilità tecnologiche non modifica la soggettività dei contenuti, bensì la loro oggettività. Avere come immagine di sfondo del proprio smartphone la propria amata non è poi così diverso dal conservare nel proprio portafogli la sua foto tessera.

 

Se la soggettività del contenuto non cambia tra immagine analogica e immagine digitale – sempre della fotografia di una persona cara stiamo parlando – ciò che si modifica è appunto la sua oggettività. L’immagine nel digitale si affranca dal supporto cartaceo e dalla pellicola permettendoci di “scattare” un numero maggiore di fotografie e di veicolarle come contenuti nelle nostre relazioni sociali. Perché? E cosa c’entra tutto ciò con i processi conoscitivi? Questa impennata quantitativa pone il senso dell’immagine e della sua produzione, oltre che nella dimensione straordinaria dell’evento (feste, grandi eventi sportivi, viaggi, ecc.) nella dimensione ordinaria del quotidiano (selfie, foto profilo, ecc.). È dunque all’interno di quest’ultima dimensione che si deve valutare l’immagine digitale. La vita quotidiana è l’insieme di ambienti, pratiche e relazioni che utilizziamo ed esperiamo per ricostruire il senso del nostro vivere. L’immagine si fa così contenuto dell’esperienza routinaria e abitudinaria del vissuto quotidiano dando corpo ai suoi diversi momenti. Tutto ciò ovviamente è possibile grazie alle caratteristiche tecnologiche dei media digitali, tra cui spiccano la connettività e smaterializzazione dei supporti e dei contenuti.

 

Connettività, interazione, e produzione di contenuti “smaterializzati” non sono però semplicemente delle caratteristiche tecnologiche, sono altresì delle peculiarità del tipo di esperienza quotidiana che ogni giorno facciamo dei media e dei processi culturale, sociali e comunicativi che essi favoriscono. C’è dunque un processo di con-formazione tra medium ed esperienza che, a differenza del passato, valorizza la funzione dell’immagine. Così scatto una foto e la mando a un mio contatto perché la forma mediale di quest’ultima facilita la trasmissione dei contenuti e dei significati che desidero trasferire. Tale pratica, così come accaduto per altri fenomeni innescati in passato da altre forme mediali, presenta semplicemente dei vantaggi all’interno del tipo di relazioni che si sono costruite nell’era digitale. L’immagine, differentemente dalla parola scritta, sembra adattarsi con maggiore aderenza al presente, d’altro canto, come osservava McLuhan: “Gli effetti della tecnologia non si verificano infatti al livello delle opinioni o dei concetti, ma alterano costantemente, e senza incontrare resistenza, le reazioni sensoriali o le forme di percezione. [...] In una società alfabeta e omogeneizzata l’uomo cessa infatti di essere sensibile alla vita diversa e discontinua delle forme. Acquisisce l’illusone della terza dimensione e il «punto di vista personale» diviene parte integrante della sua fissazione narcisistica (McLuhan 1964: P. 19-20)”.

 

C’è dunque un fondamentale legame tra immagine digitale, forme esperienziali del presente, e forme di percezioni. Questa esplosione quantitativa delle pratiche fotografiche, come sottolinea Jedlowsi, evidenza un tipo di percezione, e quindi di conoscenza, storicizzata. Probabilmente queste forme di percezione e conoscenza, più che strutturarsi sulla parola scritta, si stanno conformando alle peculiarità dell’immagine, rendendo quest’ultima l’elemento centrale di una nuova “grammatica” della conoscenza.

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