Uno studio di registrazione

Così i big data rendono più stupida la musica

Eugenio Cau
Una ricerca dice che i testi delle canzoni prime in classifica in America sono roba da terza elementare. Cosa c'entrano i big data. Il caso di Shazam

“I musicisti sono morti, ma ancora non lo sanno”, scrive sull’ultimo numero la rivista francese Paris Match vicino all’immagine di un chitarrista robot. E se anche non sono morti, i musicisti sono poco scolarizzati, almeno a giudicare da uno studio americano di questi giorni (ripreso tra gli altri da Buzzfeed) secondo il quale i testi delle canzoni di maggior successo degli ultimi dieci anni sono al livello di lettura di un bambino di terza elementare. Le canzoni sono semplici, ripetitive (per chi è interessato, uno dei risultati peggiori lo ottiene Beyoncé), e il trend mostra che negli ultimi dieci anni lo sono diventate sempre di più – ormai ci arriva anche un bimbo di seconda. Il pop è semplice per definizione, si dirà, da Beyoncé nessuno pretende letteratura, ma anche la musica rap, il country, il rock non ottengono risultati migliori. In media, le canzoni usano un lessico di 300 parole, una miseria se si pensa che un adulto di cultura media ne conosce circa 8.000.

 

Il test sulla complessità delle canzoni è stato fatto dal sito SeatSmart, e si basa su un’analisi automatica dei testi, del numero e della lunghezza delle parole che li compongono, e per ammissione dei suoi autori i risultati devono essere presi con cautela, ma ci parlano comunque di un mondo (quello della musica americana, ma il discorso si può estendere) in cui i linguaggi si restringono, diventano omogenei, la complessità (ma non necessariamente la bellezza) si perde.

 

Nel mondo della musica, la grande domanda che assilla i discografici, i talent scout, i procacciatori di nuove hit è: quale sarà la prossima canzone che la gente vorrà ascoltare? Un tempo, per rispondere a questa domanda bisognava infilarsi in locali fumosi, andare ai concerti scalcagnati di centinaia di band, costringere gli stagisti ad ascoltare a ripetizione le registrazioni amatoriali degli aspiranti artisti. Il mestiere del talent scout si faceva con l’istinto e l’esperienza, servivano talento e una certa dose di fortuna.

 

Ma le cose stanno cambiando, e per rispondere alla grande domanda ormai le case discografiche si affidano sempre di meno ai procacciatori di musica e sempre di più ai software e agli strumenti di analisi. I big data sono entrati nel mondo della discografia, e lo stanno cambiando in maniera notevole. Si prenda Shazam, la app per identificare titoli e artisti delle canzoni. Shazam è la risposta perfetta alla domanda su cosa vuole ascoltare la gente, perché è sulla curiosità per la nuova musica che si basa il suo modello di business. Esempio: c’è musica interessante in un locale, nessuno sa di che canzone si tratta, si apre Shazam e la app in pochi secondi analizza la canzone e sputa fuori titolo e autore. Così quando migliaia di persone cercano la stessa canzone, i discografici sanno che sono davanti a una nuova potenziale hit. Di recente Derek Thompson sull’Atlantic ha raccontato che Shazam, con i suoi 20 milioni di ricerche al giorno e un archivio enorme, è in grado di rintracciare luogo e data di origine di un grande successo discografico (quando e dove una canzone è diventata famosa per la prima volta, in che modo la sua popolarità si è diffusa di città in città, in che momento è diventata un tormentone ascoltato da tutti). Soprattutto, gli analisti di Shazam sono in grado di capire con mesi di anticipo sul mercato quali canzoni funzionano e quali no, quali saranno i prossimi successi e dove si diffonderanno.

 

Così i big data soppiantano gli istinti del talent scout, oltre a Shazam anche Spotify, Pandora, Twitter e perfino le ricerche su Wikipedia sono delle fonti di big data da macinare per sapere chi sarà la prossima Taylor Swift, il talento diventa una qualità misurabile con gli algoritmi, il successo non è più una formula alchemica ma un’equazione matematica. Gli algoritmi però hanno un problema, e cioè che per loro natura confrontano il simile, ottimizzano l’esistente, non lasciano spazio a variabili fuori controllo. Se una canzone funziona, gli algoritmi prediranno che la prossima hit sarà una canzone simile, se una moda ha successo non c’è bisogno di cambiarla. E’ così che la musica rischia di diventare omogenea, le canzoni di assomigliarsi tutte – ed è così che perfino i testi si restringono e si frammentano fino a diventare roba da terza elementare. I discografici sanno che capire quale sarà la prossima canzone che la gente vorrà ascoltare non significa dare sempre alla gente quello che vuole. Il pubblico ha bisogno di sorprese, ma gli algoritmi sono fatti apposta per aggirare le sorprese, gli errori, gli imprevisti nel sistema.

 

I musicisti non sono morti, e il pezzo di Paris Match, che parla di musica fatta dai robot, immagina un futuro per ora impossibile. Ma l’industria discografica sta affrontando una crisi epocale, deve vedersela con lo streaming, la disintermediazione, con un modello di business che non funziona più. Le accuse di banalità della musica pop sono vecchie quanto la musica stessa, ci sarà sempre qualcuno che dirà: come i Led Zeppelin nessuno, e la storia gli dimostrerà che ha torto. Ma la crisi di questi anni sta facendo preoccupare discografici e artisti, in molti dicono che il calo della qualità, reale o percepito, è colpa della crisi che non consente di investire nel talento. C’è chi vede nei big data una soluzione, è probabile che siano parte del problema.

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.