Uber & co., lezioni anglosassoni per un legalitarismo non feticista

Luciano Capone
Se l’innovazione è più veloce della legge. L’irruzione delle app nel mercato dei servizi sta creando forti tensioni tra i nuovi arrivati e gli operatori tradizionali.

Milano. L’irruzione di Uber e di tutti i suoi cugini nel mercato dei servizi sta creando forti tensioni tra i nuovi arrivati e gli operatori tradizionali, concorrenza e diritti acquisiti, innovazione e legalità, e pone una grande sfida alla politica e al regolatore su come trovare una sintesi o una soluzione.

 

Per adesso la politica ha preferito ignorare il problema, lasciando le cose come stanno, ovvero: tutto legale e tutto illegale. In realtà, a differenza di quanto si sia portati a pensare, quella che va sotto il nome di “sharing economy” non è proprio una rivoluzione tecnologica della portata di altre avvenute nei decenni passati, si tratta di servizi vecchi (sono sempre auto che trasportano passeggeri e camere che ospitano turisti) ma forniti in modo innovativo. E tanto basta a rendere le norme attuali obsolete e inadeguate. Ciò vuol dire che questi nuovi servizi si sono diffusi proprio per dei vuoti o delle ambiguità normative, come d’altronde ogni innovazione che non poteva essere prevista da una legge antecedente. In questo contesto il richiamo feticista al principio di legalità (le leggi esistono e vanno applicate) non ha molto senso. Il punto è come il regolatore risponde all’innovazione e come è capace ad adeguare le proprie norme all’evoluzione dei processi economici. “Ci sono delle profonde differenze tra i paesi anglosassoni e l’Europa continentale – dice al Foglio Mario Maggioni, economista dell’Università Cattolica, studioso di economia dell’innovazione – in un paese come l’Italia prima che ci sia una specifica norma è difficile regolare alcunché, mentre il vantaggio dei paesi di ‘common law’ è la forza del precedente, affermata nei casi dell’innovazione tecnologica spesso anche da singole sentenze a livello locale. C’è un vantaggio dal punto di vista evolutivo che evita anche il rischio di norme sbagliate che continuano a produrre effetti sbagliati”. Anche negli Stati Uniti non sono mancati gli scontri tra tassisti e Uber, tra albergatori e Airbnb, tra le start up e gli amministratori pubblici, ma da quelle parti esiste un ambiente favorevole a esercitare il “diritto all’innovazione” o quantomeno un atteggiamento che non respinge l’innovazione e cerca di integrarla in un sistema di garanzie per i cittadini.

 

[**Video_box_2**]Ad esempio in molti stati americani e in Gran Bretagna sono già state emanate leggi che consentono lo sviluppo e i test su strada delle “driverless car”, le auto senza conducente progettate da Google che non sono ancora in commercio. “Esiste un problema culturale – dice Maggioni – il governo britannico ha messo in piedi Nesta, una quango, ovvero un’agenzia finanziata dal governo ma indipendente dalla politica, che raccoglie i migliori scienziati sociali che studiano l’innovazione per avere analisi di scenario sul futuro. Ma a parte questo c’è anche una grande differenza istituzionale, negli Stati Uniti su queste materie sono competenti gli stati e anche le città e ciò permette di sperimentare legislazioni diverse. Ognuno nel suo laboratorio sperimenta il suo modello legislativo e successivamente valuta i propri risultati e quelli dei vicini per fare gli aggiustamenti necessari. Ciò è impossibile in un contesto monolitico come il nostro”. Il rischio di un sistema centralizzato, soprattutto in un periodo di rapida evoluzione tecnologica, è che i regolamenti emanati dopo mesi e anni di elaborazione risultino superati appena dopo l’approvazione. “L’Expo, che è un evento limitato nello spazio e nel tempo – dice Maggioni – con il suo picco di domanda aveva dal punto di vista teorico le condizioni ideali per essere l’esperimento di una regolamentazione che tutela e assicura il consumatore senza bloccare i nuovi servizi, magari si sarebbe scoperto che con un’offerta più ampia ci avrebbero guadagnato tutti”.

Di più su questi argomenti:
  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali