Al Pacino nei panni dell'allenatore degli Sharks nel film Ogni maledetta domenica

Il mistero dell'allenatore

Mauro Berruto

Il rapporto di mentorship fra un tecnico e il suo atleta è quanto di più complicato e difficilmente raccontabile esista al mondo

Ho sempre ammirato, anzi invidiato, i miei colleghi della scherma, sport meraviglioso che non a caso è il più grande produttore di medaglie olimpiche (125) del nostro Paese e che ancora ha il coraggio e l’orgoglio di chiamare Maestri i suoi allenatori. In quest’epoca di attacco alle competenze è un’operazione doppiamente meritoria perché rivendica, nella bellezza di una parola, autorità, capacità, dignità del ruolo. Che miserabile errore è stato quello di prosciugarla, quella dignità, ai nostri insegnanti, ai nostri formatori, ai nostri allenatori. Allora prendo un turno di riposo dal racconto di una disciplina sportiva e dedico il pezzo di oggi a una figura che di tutte le discipline sportive è protagonista, magari nella penombra: l’allenatore.

 

Il rapporto di mentorship fra un allenatore e il suo atleta è quanto di più misterioso, complicato e difficilmente raccontabile esista al mondo. Il leggendario coach della squadra di football americano dei Dallas Cowboys, Tom Landry, ha provato a spiegarlo così: “Un allenatore ha il compito di far fare a qualcuno ciò che non vuole fare, per fargli ottenere quello che vuole ottenere”. Rileggete un paio di volte e coglierete la complessità del ruolo. Il gesto dell’allenare, peraltro, non è esclusivo di chi lo esercita su un campo di calcio, pallavolo o basket. È il gesto che devono padroneggiare tutti coloro che scelgono persone, tentano di trasformare gruppi in squadre, definiscono obiettivi e orientano le proprie organizzazioni verso una performance, cosa che succede quotidianamente in un impianto sportivo, certo, ma anche in un’azienda, in un ospedale o in una scuola.

 

Insomma, per ispirare i milioni di allenatori che esercitano le proprie funzioni nel nostro paese (d’altronde siamo o no la nazione dove tutti si sentono cittì?) propongo un paio di libri, come sempre. Il primo va alle radici della storia di questo affascinante mestiere: si tratta de Il manuale dell’allenatore di Filostrato di Lemno (Interlinea edizioni, 1995). Scritto nel III secolo d.C. è l’unica testimonianza giunta a noi che racconta da un punto di vista tecnico e intellettuale, l’allenatore dell’antichità classica. È un testo meraviglioso, delicato e profondo che testimonia come nell’antica Grecia l’atleta non fosse considerato la somma di corpo e anima, ma una mirabile unità. L’allenatore, dunque, doveva prendersi cura di questa unità, conoscendo la metodologia, ma anche la medicina, la filosofia, la pedagogia, l’alimentazione, la politica, l’arte. È un ruolo altissimo quello che Filostrato consegna agli allenatori, figure centrali di una comunità e leggere oggi queste pagine restituisce la sensazione di nuotare in un mare pulito.

 

Elisa Chiari, milleottocento anni dopo, riprende con grazia e talento l’argomento, pubblicando il suo L’altra faccia della medaglia (Limina, 2005), raccontando emozionanti intrecci di grandi maestri e di grandi campioni. I protagonisti, per una volta, diventano coloro che normalmente vivono le imprese dietro le quinte: Bruno Franceschetti racconta Jury Chechi, Pierluigi Formiconi le sue ragazze d’oro della pallanuoto, Luciano Gigliotti il suo “biondo” Stefano Baldini, Giorgio Cagnotto le acrobazie di Tania. Fra le figure più note al grande pubblico, come Julio Velasco o Carlo Recalcati, è Carlo Mazzone che regala l’immagine più bella: “Ho un gemello che arriva ogni domenica a mezzogiorno. Mi dice ‘Adesso voglio vedere che lavoro hai fatto questa settimana. Dammi il fischietto e smamma’. Lui prende il fischietto, va in campo e fa casino. Ogni tanto, poi, torna e mi dice che li ho allenati male. Quando perdiamo li ho allenati io, quando vinciamo è stato bravo lui a guidarli”.

Schizofrenie da coach. Gente strana, come dice Elisa Chiari, sospesa a metà strada tra la figura di un padre e la coperta di Linus.

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