Coldplay in concerto a Sheffield - Foto LaPresse

Dall'insofferenza alla devozione. Ammettiamolo, ci piacciono i Coldplay

Stefano Pistolini

La sgradevole sensazione si trovarsi sempre dalla parte sbagliata della barricata. E mica per spirito da bastian contrari. Anzi, nel tentativo di comprendere e di non cadere preda dei pregiudizi.

La sgradevole sensazione si trovarsi sempre dalla parte sbagliata della barricata. E mica per spirito da bastian contrari. Anzi, nel tentativo di comprendere e di non cadere preda dei pregiudizi. Oggetto musicale del ragionamento: Coldplay. Reduci da un periodo di tempo insopportabilmente lungo durante il quale la scena rock internazionale venne dominata dagli U2 e da una sequela di loro cloni, allorché il quartetto irlandese cominciò a dare i primi segni di cedimento ci rallegrammo, preparandoci al sollievo di un ricambio, ci auguravamo nel senso della più completa diversità. Fu allora che spuntarono i Coldplay e sfondarono subito, sebbene non fossero altro che la band messa su da quattro universitari fannulloni. Noi la prendemmo malissimo. I suoni e gli intenti ci sembravano fin troppo gli stessi dei predecessori, all’insegna di una rarefatta lamentazione e di lancinanti pezzi dove, tra alti e bassi elettrici, un cantante pieno d’interrogativi cosmici e con inesauribile quantità di tempo a disposizione per dirimerli (il nostro, di tempo – nella fattispecie), novello Amleto se la menava moltissimo, nell’abituale segno dello spleen d’Albione. Il tutto tra ali di folla plaudente e col contorno di quel piacionismo che Chris Martin gestì da subito con invidiabile nonchalance. Fu così che per un bel po’ di tempo covammo insofferenza di fronte agli implacabili successi dei Coldplay, finché, come tanti altri assertori dell’ostilità aprioristica, inciampammo nella trappola preparata dal loro biondo capintesta: a cavallo tra la perfezione indiscutibile di “Fix You” e gli archi gratificanti di “Viva la Vida”, ci trovammo a consumare i relativi due album con una devozione a dir poco sospetta, a fronte della quale era impossibile continuare a mentire. Era il momento dell’autocritica. Contrordine, compagni: i Coldplay sono facili e vanesi, lacrimosi e furbi, ma questo è un gran gruppo, produce album killer, conosce il segreto della canzone perfetta, esegue con una maestria d’altri tempi e là davanti ha il miglior cantante di rock melodico da un sacco di tempo a questa parte. Tante scuse e finalmente una vita pacifica, ascoltando i Coldplay anche in macchina, senza timore d’essere riconosciuto. Una pacchia. Anzi, perfino una moderata ansia nell’attesa del loro nuovo album (beh, non esageriamo: l’ansia per il ritorno dei Coldplay è una gigionata), che s’intitola “Ghost Stories” e ha una copertina blu con le solite ali bianche degli angeli, oggi il segno grafico più inflazionato nel mondo del pop. Nei giorni precedenti all’ascolto, perfino il rammarico per le notizie in arrivo dai rotocalchi: ahi, Chris e Gwyneth, la donna a cui riconosciamo ecumenicamente alcuni punti sopra la media, hanno d’improvviso rotto il loro sodalizio sentimentale. Vallo a dire a mia figlia, che mi faceva mangiare sei cornetti da quel Pain Au Chocolat all’ingresso dei giardini di Hampstead, dove i bene informati sanno che prima o poi la coppia regnante entrava per il più rilassato dei cappuccini. Insomma, è con addosso questo stato di tensione che ascoltiamo “Ghost Stories”. Risultato? Beh, non solo i Coldplay, ma addirittura un distillato, un concentrato di Coldplay. Sentimenti, dolcezze, armonie rotonde, suoni lievi ed eleganti e il miglior salmodiare canterino che Martin abbia concesso dagli esordi. Guardate che non scherziamo: l’album è perfetto per i cultori del genere, delicato e dolente, disseminato di vocoder e di canti d’amore e disamore, dominato – con buona pace dei comprimari – degli ululati alla luna di Chris per il distacco dalla principessa, che non è di quelle che ne trovi facilmente un’altra. Però godibile, ben fatto, commovente se siete degli ingenui, suggestivo. Quello che sono sempre stati i Coldplay e che, invecchiando, sanno essere ancora meglio. Apriti cielo: cominciamo a leggere le recensioni, ed è un diluvio d’insulti. A Martin danno del ridondante palloso, del narciso incontinente, del noiosissimo cornuto. La musica viene bollata di ripetitività, vecchiezza, inconsistenza e boria. Un massacro, hai voglia a dire che una canzone d’amore come “True Love” al mondo la scrivono in pochi. E noi? Di nuovo in minoranza? Per ora sì, ma caparbiamente resistiamo. E diamo ottimi voti e solidarietà a Martin e al suo primo disco da separato. E’ un lavoro egregio, è britpop per gli anni Dieci e deflagrerà nelle nostre rotonde sul mare. E’ musica per chi vede i film con Jude Law e Clive Owen e legge Hornby e Coe e – non scherziamo – quanti siete là fuori? Non nascondetevi, dài. E, per favore, non ricominciate a scuotere la testa con compatimento.

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