Il disco più magico e misterioso dei Beatles

Stefano Pistolini

A quarantacinque (!) anni dall'uscita, arriva la riedizione di “Magical Mistery Tour”, l'episodio più esoterico nella produzione dei Beatles. Vedono la luce la versione rimasterizzata dell'album e un cofanetto per feticisti, con i due Extended play in vinile originali, il dvd del film con tanti extra, i cd, nonché un volume con l'abituale messe di foto inedite.

    A quarantacinque (!) anni dall'uscita, arriva la riedizione di “Magical Mistery Tour”, l'episodio più esoterico nella produzione dei Beatles. Vedono la luce la versione rimasterizzata dell'album e un cofanetto per feticisti, con i due Extended play in vinile originali, il dvd del film con tanti extra, i cd, nonché un volume con l'abituale messe di foto inedite. Un package golosissimo, messo sul mercato a caro prezzo. Il fatto è che da noi, ai tempi, quel disco fu difficilmente decodificabile, con la limitata circolazione d'informazioni e la sporadica condivisione degli spunti culturali che c'era. Andava in una direzione diversa da quella verso cui si avviava la nostra produzione, e perciò venne giudicato un capriccio viziato dei genietti di Liverpool, all'indomani di “Sgt. Pepper”, l'opera perfetta, e al cospetto dell'interrogativo su come ricominciare. Il fatto è che “Magical Mistery Tour” contiene un paio d'intuizioni interessanti da rileggere e collocare nella parabola del pop. La prima è quella della multimedialità (assai più integrata di quanto era già avvenuto con “Help” e “Hard Day's Night”), come punto di partenza del lavoro. Dopo aver assemblato un'opera complessa come “Sgt. Pepper”, Paul (e in maniera minore John, che all'epoca ha già assunto un posizionamento angolare e di sottile dispetto nei confronti della produzione della band) percepiscono la particolarità del momento: non è nello stile dei Beatles rischiare il confronto con loro stessi e il disco del sergente non era eguagliabile, per la delicata armonia che lo governava. La soluzione poteva essere realizzare qualcosa di radicalmente diverso, meno solenne nei propositi, ma provvisto di quel germe della sperimentazione che (oggi lo si dimentica) era prerogativa essenziale dei Beatles. Dunque ecco il soggetto che si dispiegava al tempo stesso come film e disco, in quest'ultimo caso declinando il formato standard del long playing e utilizzando quello meno formale, più estemporaneo, del doppio extended play, ovvero presentandosi come una vacanza nella successione della produzione ufficiale. A rendere ancora più imprevedibile l'operazione arriva un evento luttuoso: la morte di Brian Epstein, manager del gruppo che, tra le altre cose, svolgeva il compito di severo controller delle sue proposte artistiche, secondo linee guida fin troppo codificate. Inoltre “Magical Mistery Tour” veicolava un messaggio ancor più indecifrabile, visto dalla remota Italia, quanto ai propositi narrativi: ci confluivano le anglosassoni tentazioni surreali di John e la sua passione per le bizzarrie simboliche di Lewis Carroll, nonché il citazionismo di Paul verso le esperienze psichedeliche americane, con cui era venuto a contatto durante i soggiorni oltreoceano, mentre impazzavano le avventure di Ken Kesey e del suo “acid test” itinerante, a bordo del celebre autobus multicolore e alla tribù dei Merry Pranksters, presto immortalata dal reportage di Tom Wolfe. Il bello è che, al momento di realizzarlo, i Beatles modulano quell'ispirazione nel linguaggio e nel modo produttivo casareccio e pauperista da sempre prediletto (oggi si direbbe “indie”…): dunque un pullman scalcagnato, una banda di parenti e amici scarrozzati prima per la città di Liverpool e poi (quando il pressing dei fan rende impossibile le riprese) per il sud dell'Inghilterra, “in direzione delle luci di Blackpool”, ricorda Paul. Un day trip nel solco di quelli che gli inglesi squattrinati facevano sugli autobus che la domenica proponevano escursioni “mistery”, ovvero la cui destinazione era segreta, e che per qualche anno divennero un diversivo popolare.

    Una sciocchezza diventa poesia
    Quella truppa improvvisata viaggia per un paese che adesso non c'è più, le atmosfere sono sognanti, l'allegria è effimera, i discorsi inconsistenti, i dialoghi sbriciolati (Tati? Fellini?). Grande cinema o una goliardata? Non importa, perché a sorreggere il tutto c'è la musica: la scrittura di Paul e John è sublime, matura, assoluta. Il quartetto si ferma in una radura e risuonano “The Fool On the Hill”, “I Am the Walrus”, “Hello Goodbye”, George intona la divagazione californiana “Blue Jay Way”, arriva il diversivo vaudeville “Your Mother Should Know”: un'intero orizzonte di delizie. Visto oggi “Magical Mistery Tour” pare una raccolta di videoclip d'antan, tenuti insieme da una sottile trama interstiziale. 55 minuti di film, 36 di disco. Ma c'è qualcos'altro, più impalpabile e affascinante in quelle immagini e in quei suoni: la compresenza della sensibilità e della semplicità, l'assenza di trucco di fronte al deflagrare della fantasia, la frugalità che fiorisce in grandezza, la sciocchezza che diventa poesia. Un mistero, ancora intatto e impenetrabile, dunque contemporaneo. Il film fu un insuccesso, il disco, invece, andò bene come al solito. I Beatles erano a un paio di stazioni dal capolinea. E ripartire adesso, nel 2012, per il magical mistery tour, continua a essere un'“esperienza” stordente. Dal momento che, appena partiti, ecco che ci si ritrova, d'amblè, oltre lo specchio.