Idee e voglia di mettersi in gioco: ecco come Israele è diventato il polo mondiale della tecnologia

Jonathan Pacifici

L’importante dirigente italiano, in giacca e cravatta in un caldo pomeriggio di luglio a Tel Aviv, mi lancia un’occhiata, poi fissa il nostro interlocutore, uno dei fondatori di una delle più promettenti start up israeliane e gli chiede: “Se voi siete capaci di fare ciò che sostenete, perché Google non se lo fa da sola?”. “Veramente…”, ribatte sorridendo nei suoi bermuda e sandali naot, “…Google viene da noi a chiedere come si fa”. In questo episodio c’è forse tutta la ricetta dell’hi-tech israeliano: una ventata di gioventù, tanta innovazione ma soprattutto nessun senso di inferiorità. Nessun problema a sostenere – e dimostrare – che la propria mini azienda con i suoi venti dipendenti e uffici open space in un palazzo che dimostra tutti i suoi anni sul lungomare di Tel Aviv, possa saper fare qualcosa meglio del colosso di Mountain View.

 

Di società così, frutto dell’impegno di ragazzi sulla trentina, in Israele ce ne sono migliaia. Attraggono investimenti per circa quattro miliardi di dollari l’anno e sono il vero motore del miracolo economico israeliano. La storia è semplice: un paio di ragazzi escono da tre anni di servizio militare nelle unità informatiche dell’esercito e si iscrivono a Ingegneria informatica. Hanno l’idea nel cassetto e tanta voglia di mettersi in gioco. Il loro primo scoglio è trovare i fondi: busseranno a ogni porta di Rechov HaMenofim, l’indirizzo di quasi tutti i fondi di Venture Capital a Herzelya Pituach, parleranno con chiunque sia disposto a concedere loro dieci minuti. Se troveranno i soldi – e se dimostreranno di essere capaci – potranno forse anch’essi risultare uno degli exit stellari, con un’acquisizione da parte di un colosso americano o un IPO al Nasdaq, dove Israele ha più società quotate che l’Europa e l’Asia messe assieme.

 

E’ questo oggi il sogno di ogni bambino israeliano: essere il prossimo Shai Agassi che a trent’anni e un giorno vende la propria società per oltre cento milioni di dollari al gigante tedesco Sap. Se questo è vero negli ultimi quindici anni, nell’ultimo paio d’anni il ritmo sta diventando incredibile. Viber, una start up israeliana che offre un’applicazione mobile capace di consentire chiamate gratuite su iPhone o Android, ha racimolato tre milioni di download nella prima settimana di vita. Dopo neanche sei mesi, ha venti milioni di utenti, più dell’operatore mobile medio europeo. Oggi conta circa duecento milioni di utenti, al punto che Viber risulta essere uno dei maggiori competitor di Skype, che Microsoft ha acquistato per 8.5 miliardi di dollari. Viber si è accontentata di poco meno di 1 miliardo di dollari. Questo fenomeno è oggi universalmente conosciuto come “Startup Nation”, il titolo di un ottimo libro di Dan Senor e Saul Singer, che affrontano in modo sistematico le ragioni di un miracolo. Spiegano cioè come un paese di appena otto milioni di abitanti circondato da nemici sia il secondo polo mondiale della tecnologia. La loro analisi è del tutto condivisibile e verte su quello che è diventato il dna di un paese meritocratico dove i giovani vengono stimolati e soprattutto responsabilizzati. Senor e Singer descrivono attentamente l’ambiente, “l’ecosistema” che si è creato.

 



 

Questo ecosistema passa per tante piccole storie, che meriterebbero d’essere raccontate. Qualche tempo fa abbiamo ospitato per una presentazione una start up nella quale, per altro, non investiremo. Il fondatore è uno studente di matematica, un vero genio degli algoritmi, e il tema è l’ottimizzazione del processo di calcolo che è alla base della fruibilità di contenuti multimediali interattivi (i giochi, ad esempio) su piattaforme mobili; un grattacapo che vale miliardi di dollari secondo società come Facebook e Zynga. “Vedete”, ci ha detto, “in un caso come questo all’Università ti insegnano a scrivere il miglior algoritmo possibile e io questo lo so fare, ma l’algoritmo risponde alla domanda, ed è la domanda a essere sbagliata”. Noi ci guardiamo incuriositi, e lui ci spiega come nessuno abbia provato ad affrontare – matematicamente – il problema da tutt’altra angolazione. Ha riscritto la domanda e ha ottenuto risposte oltre ogni ipotesi. Ecco: questo è esattamente quello che fa il popolo ebraico da quattromila anni. Non cerca soltanto le risposte, ma soprattutto riscrive le domande, spronando così un pensiero non lineare che rompe i luoghi comuni e sposta continuamente la frontiera del sapere.

 

Questo atteggiamento è profondamente ebraico. Nel Talmud – prima ancora di affrontare le risposte – si discute, spesso per pagine intere, cercando di capire se la domanda posta è la domanda giusta. Chi la sta ponendo? Perché? E’ veramente necessaria? E’ in contraddizione con qualcos’altro che lo stesso Maestro ha detto altrove? E via discorrendo. Poi, forse, si torna anche alla domanda originaria, ma più forti di un percorso didattico intero nel quale si è capito come mai quella, e solo quella, era la domanda giusta da porre. O magari no.

 

Jonathan Pacifici è venture capitalist italo-israeliano

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