Il problema di Twitter non sono gli esuberi e nemmeno Dorsey, ma quello che si aspetta la gente

Federico Sarica

    Twitter è in crisi, Twitter si sta ripensando, Twitter non sarà più la stessa. Sono questi i temi che tengono banco su pagine specializzate e pubblicazioni del settore, visto che negli ultimi giorni, e in seguito alla nomina del fondatore Jack Dorsey come ceo (un ritorno molto chiacchierato, la prima mossa che ha fatto pensare a molti che qualcosa di grosso effettivamente stesse succedendo), Twitter ha fatto altri due annunci da non sottovalutare. Quali? L’altroieri ha ufficializzato il taglio di trecentotrentasei dipendenti, circa l’otto percento della sua forza lavoro complessiva, e ieri ha rivelato il nome del nuovo chairman: si chiama Omid Kordestani, arriva da Google dove è stato a lungo un pezzo grosso, ed è la risposta a chi chiedeva a gran voce a Dorsey di pescare qualcuno dall’esterno dall’azienda. Una riorganizzazione in tre mosse, cui dovrebbero seguirne altre, che conferma forte e chiaro quel che da tempo molti analisti e addetti ai lavori sostengono: evidentemente, dalle parte dell’uccellino cinguettante, qualcosa non va. Quello che ci interessa evidenziare in questa colonna, che di start up e zone limitrofe si occupa, ha proprio a che fare con quest’ultimo punto: come si pesa il “qualcosa non va” in un’azienda digitale? Cosa vuol dire che Twitter non va come dovrebbe andare? Una ristrutturazione in una delle compagnie digitali più celebri del mondo può essere considerata l’anticamera di un fallimento o peggio ancora, come altri sostengono, l’annuncio della definitiva esplosione della bolla social e tech, o semplicemente fa parte di un normale percorso di crescita di un’azienda che vive costantemente dalla sua fondazione sulla frontiera della disruption continua? Domande difficili a cui rispondere. Alcuni elementi per provare a capirci qualcosa ci arrivano da un’interessante analisi di Jim Kerstetter pubblicata ieri su Bits, il blog del New York Times specializzato in tecnologia: le vicende di Twitter, scrive Kerstetter, vanno messe in prospettiva. In fondo, scrive il giornalista americano, 336 posti di lavoro sono molto pochi rispetto ai trentamila che sta tagliando Hewlett-Packard, ai circa diecimila che in media Ibm taglia all’anno e ai quasi ottomila tagli da poco annunciati da Microsoft. E’ vero, Twitter è più piccola e quindi i suoi tagli in proporzione valgono di più, ma l’agitazione attorno ai suoi destini e i dubbi circa il suo stato, si legge sempre su Bits, forse sono legati a un’altra cosa: le aspettative. Twitter, in fondo, è una delle poche start up dedicate ai social network a essere poi diventata azienda e marchio celebre a livello globale, è utilizzata da milioni di utenti, è un simbolo forte della nuova èra digitale, ha avuto fino a oggi una crescita esponenziale, è stata per molto tempo il secondo social del mondo (da poche settimane Instagram l’ha superata per numero di utenti) e ha un competitor ingombrante che è anche un modello e in qualche modo un assillo per chiunque voglia esserci e contare nel mondo dei social network: Facebook (che è proprietaria anche di Instagram, tanto per aumentare la pressione).

     

    “Il percorso che stiamo intraprendendo è anche un piano per cambiare il modo in cui lavoriamo”, ha scritto Dorsey nella mail mandata a tutto il personale per annunciare i tagli. Cambiare il modo in cui lavoriamo. Dovrebbe essere la normalità per un’azienda che cresce, e deve e vuole restare al passo coi tempi in un settore che cambia alla velocità della luce, non fosse per quelle aspettative di cui sopra: se ti chiami Twitter tutti si aspettano che tu corra sempre più veloce in un mondo che rallenta. E’ il destino di chi fa impresa digitale: sorriso sulle labbra, crescita esponenziale, numeri vincenti. Altrimenti è subito “bolla”.
    Forse è il momento di lavorare sulle aspettative: parliamo pur sempre di aziende che sono enormi e che non esistevano fino a pochi anni fa. Simboli di successo e di cambiamento epocale, sicuramente, ma pur sempre aziende. E che come tali hanno un obbligo solo: stare sul mercato. Per salvare il mondo c’è sempre tempo, e non è affatto detto che debbano farlo i social network.